venerdì 6 aprile 2012

VIRGINIA MARANGON (Elena Benincasa) - Tra utopia e realtà: il trasformismo di Orwell

Il margine che separa l’universo del Grande Fratello e il trasformismo applicato da anni alla politica italiana non è così spesso come si potrebbe pensare.



La lettura del capolavoro di Orwell è l’ispirazione per l’avvio di una riflessione sull’importanza di abbandonare i fantasmi del passato trasformista e non accontentarci di ciò che la politica italiana ci propone:

“ […] Proprio allora era stato annunciato che l’Oceania non era in guerra con l’Eurasia. L’Oceania era in guerra con l’Estasia. L’Eurasia era una nazione alleata. […] Quando ciò avvenne, Wiston stava prendendo parte ad una manifestazione in uno dei parchi del centro di Londra. […] Da una piattaforma un oratore del Partito Interno arringava la folla. […] Il discorso andava avanti da venti minuti, quando un messaggero infilò un biglietto in mano all’oratore. […] In pochi minuti tutto era finito. L’Odio era proseguito come prima, aveva solo mutato bersaglio. Ciò che impressionò Winston era il fatto che l’oratore avesse mutato rotta nel bel mezzo di una frase. […] L’Oceania era sempre stata in guerra con l’Estasia. Gran parte degli scritti politici degli ultimi cinque anni era adesso divenuta obsoleta. Tutto doveva essere corretto a velocità supersonica.”


Ho appena terminato la lettura di 1984. Nella mente echeggia senza tregua una sola parola: “bipensiero”. Si tratta di un termine proprio della neolingua di G. Orwell, che esprime il meccanismo psicologico del farsi e disfarsi: tutto può essere creato e distrutto dal nulla. Così, un’idea e il suo opposto: ci si dimentica il cambio di opinione e persino l’atto stesso del dimenticare. La citazione riportata all’inizio dell’articolo è la diretta rappresentazione di questo concetto, secondo cui un’intera nazione da un momento all’altro può dirigere le proprie azioni belliche verso un Paese che fino a qualche istante prima era l’alleato, senza la minima incertezza.

Partendo da questo spunto, a distanza di più di un secolo dallo scandalo della Banca Romana e dal governo, prettamente trasformista, di Giovanni Giolitti, è necessario fare una breve ma rischiarante riflessione su come questo sistema politico pendolare, che per decenni ha oscillato tra Destra e Sinistra storiche e di cui Giolitti è stato l’emblema, abbia influenzato la politica italiana fino ad oggi. Il bipensiero orwelliano non è altro che una saturazione utopistica del trasformismo italiano: come i cittadini dell’Oceania non colgono la differenza tra muovere guerra contro l’Eurasia o contro l’Estasia, così in Italia a partire da fine Ottocento non si percepisce più la linea di separazione tra Destra e Sinistra in seno a ideologie e programmi di governo.

Ricostruendo il percorso politico che ha portato al trasformismo giolittiano volgiamoci all’impulso iniziale: il connubio Cavour-Rattazzi (1852), responsabile di aver isolato dal Parlamento le ali estremiste sia reazionarie sia progressiste. Successivamente, la prima concretizzazione del trasformismo, altrimenti detto degenerazione del connubio, si ha col governo di Depretis che, seguendo le orme cavouriane, cristallizzò lo scontro politico tra i poli opposti, allontanando l’Italia dall’orizzonte bipolare. Attraverso l’azione di Depretis la Sinistra storica perse di vista i capisaldi liberali del proprio partito, in direzione di posizioni sempre più moderate. L’essere tutt’uno di Destra e Sinistra è parso, inizialmente, positivo a molti intellettuali, che hanno visto in questo gesto uno strategico tentativo di eclissare gli attriti che già da prima dell’Unità caratterizzavano il governo italiano. In merito a questa posizione, Antonio Gramsci in Quaderni del carcere descrive polemicamente il fenomeno del trasformismo come giusta elaborazione dei quadri fissati dai moderati, nonché l’assorbimento degli elementi sorti dai gruppi alleati e da quelli che parevano nemici. Un moderato come Benedetto Croce, infatti, si schiera a favore del trasformismo di Depretis, apprezzando quella che secondo lui fu un’azione politica ben calibrata, volta a risolvere questioni che non avrebbero trovato soluzione in una divisione tra i due partiti.

Tuttavia, con il sopraggiungere del governo giolittiano, questa svolta politica si svuotò del suo significato originario e si tradusse in corruzione e clientelismo. Elezioni sporche, mazzette e molto altro fecero di Giolitti il ministro della malavita. Dal momento in cui salì al governo, il trasformismo cominciò ad essere visto sotto un’altra luce; Carducci lo definì brutta parola e cosa più brutta. La dubbia attività politica del Ministro raggiunse l’apice dell’immoralità con lo scandalo della Banca Romana, durante il quale furono fatti enormi prestiti a industriali, imprenditori ma soprattutto politici, tra cui lo stesso Giolitti. L’avvenimento, che macchiò irreversibilmente il governo italiano, non impedì, tuttavia, la riformazione di un governo giolittiano in seguito.

Nonostante quanto accaduto, Giolitti ottenne nuovamente il consenso popolare e la pratica del trasformismo, o meglio corruzione politica, continuò fino allo scoppio della Grande Guerra, sopravvivendo, sotto varie sfumature, anche negli anni successivi, fino al periodo attuale. Oggi il problema è ancora vivo: il trasformismo mostra entrambe le facce della medaglia. Da un lato non è più chiara la distinzione tra i partiti di Sinistra e i partiti di Destra a causa dell’intricato sistema che compone il nostro Parlamento, sempre più vicino alla promozione della maggioranza a seconda del problema da risolvere in un dato momento. Dall’altro gli scandali, che giungono non più come novità, non impediscono a una vasta cerchia di politici corrotti di esseri votati. Si pensi solo dopo quanti sforzi l’Italia è uscita-e non è ancora finita- dall’orgia politica berlusconiana, che ha agito indisturbata per anni.

Se Gramsci salvava il trasformismo in quanto responsabile della caduta delle utopie neoguelfe e federalistiche, c’è da chiedersi se uno Stato dove i cittadini eleggono come rappresentanti del governo parlamentari dalla dubbia fama, e in cui non esiste una concreta differenza ideologica da un partito all’altro, non sia anch’esso un’utopia (o forse una distopia).
Nonostante quello descritto da Orwell sia un totalitarismo, vi sono molti punti in comune col governo italiano. Nell’Oceania sottomessa al Grande Fratello i cittadini accettano tutto ciò che proviene dalle alte sfere del Partito senza la minima contestazione, proprio come in Italia abbiamo permesso a politici quali il Premier Berlusconi di trasformare il Paese in donna non di province, ma di bordello!

Concludendo, in tutto lo sconforto che 1984 getta addosso al lettore si può intravedere anche una scintilla di speranza nel messaggio che Orwell cerca di trasmettere attraverso il protagonista, Winston. Nel romanzo lui si ribella alla realtà priva di senso che il governo gli propone e cerca, compiendo sforzi oltre ogni limite, di ragionare con la propria mente, di produrre pensieri propri. Nonostante il finale drammatico, la volontà di Winston di non conformarsi all’ideologia di massa inculcata dal Partito e di lottare per evitare di essere inghiottito dal vortice utopistico è un riferimento importante che, nell’insieme delle piccole parti di cui si compone, potrebbe rischiarare la politica italiana attraverso le scelte giuste, che la scrollino dal peso della corruzione.

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