venerdì 20 aprile 2012

MARCO SHAQIRI - lI Morgenstern



Tutti gli eserciti europei, eccetto quello italiano, durante la prima guerra mondiale hanno fatto uso di armi bianche - e in particolare di mazze ferrate - per la lotta corpo a corpo nelle trincee.
Inizialmente le truppe si trovarono a disagio nell'affrontarsi corpo a corpo, tenendo conto che uccidere con una pistola a distanza ravvicinata un nemico, magari in fin di vita, significava sprecare un proiettile, quindi soldi.
I primi che trovarono soluzione alla carenza di armi ideali per la lotta corpo a corpo furono i tedeschi (e successivamente gli inglesi e i francesi), munendosi di armi bianche, come coltelli e pugnali, anche di uso domestico, commerciale o artigianale.
Ed è in questo ambiente che fu riscoperto l'utilizzo di un'arma abbandonata da secoli, la mazza ferrata. Tutte le truppe europee ne furono tempestivamente munite. Le mazze inglesi hanno spesso la data di fabbricazione e due frecce (una contenente l'altra), che contrassegnano l'esercito britannico.
L'armata italiana rimase estranea all'utilizzo delle mazze, ma se ne nota, invece, l'uso massiccio da parte delle milizie austroungariche.
L'Italia vide il primo utilizzo delle mazze da parte del nemico probabilmente nella battaglia di S. Michele del 29 giugno 1916, quando i reggimenti 7 e 20 Honved  usarono tali mazze per finire i soldati italiani avvelenati dai gas asfissianti, come testimoniano i diari dei sopravvissuti.
Sul fronte austriaco c'era un certo orgoglio nella riscoperta dell'epico Morgenstern (“stella del mattino”), anche se quasi certamente fu nascosto alla popolazione civile il vero utilizzo dell'arma.
Lo Stato italiano, invece, venuto a conoscenza di questa brutalità, fece circolare un documento nel quale si ordinava la fucilazione diretta di nemici trovati con mazze addosso. L'orrore tra la popolazione fu talmente elevato, che i nemici cercavano di non farsi trovare con un Morgenstern per non essere uccisi istantaneamente.

Tra la popolazione si sviluppò  così la leggenda dell'arma barbarica, arricchita dalle descrizioni e dalle fotografie di giornali e manifesti, che facevano una violenta pubblicità contro l'esercito austriaco, tralasciando però volontariamente la notizia che la mazza ferrata era adoperata anche dagli alleati francesi e inglesi.
A Bologna furono trovate alcune mazze ferrate austriache, che oggi sono esposte al Museo del Risorgimento.
Si noti che numerosi furono i manicomi e gli ospedali psichiatrici aperti durante e subito dopo la Grande Guerra sul territorio bolognese. Spesso infatti vi erano ospitati i soldati provenienti dal fronte austriaco, diventati folli a causa delle barbarie commesse.

ANDREA QUADRI - La spada di Murat


La spada di Gioacchino Murat, re di Napoli nel periodo napoleonico, si trova oggi a Bologna nel Museo del Risorgimento. 
Gioacchino Murat sposò Carolina Bonaparte, che era la sorella minore di Napoleone, da cui ebbe quattro figli, due maschi e due femmine. 
La spada fu ereditata da una delle due figlie, Letizia, la quale si sposò con il marchese Guido Taddeo Pepoli e da questa relazione nacque Gioacchino Napoleone Pepoli. 
Gioacchino Napoleone fu un importante comandante della Guardia Civica di Bologna durante le rivolte dei cittadini bolognesi nei confronti dell’occupazione austriaca nell’ agosto del 1848. 
Letizia Murat donò la spada a suo figlio Gioacchino N. Pepoli,che divenne Sindaco di Bologna e alla sua morte la lasciò alla città, dove è tutt’ora conservata. 
Una curiosità riguarda la moglie di Gioacchino Napoleone Pepoli, Federica Guglielmina Hohenzollern-Sigmaringen, che era parente degli imperatori austriaci nemici del nonno del marito.

lunedì 16 aprile 2012

una canzone per Sarajevo


Fabio Zucconi - Bosnia: diario di viaggio


Venerdì 23 marzo

Dopo quasi cinque anni ho visitato la città di Trieste per la seconda volta. Poter camminare di nuovo per piazza Unità d’Italia, completamente affiancata al mare, mi ha fatto provare una sensazione di libertà e pace. Sono passato anche dal teatro romano, che l’ultima volta non avevo visto. Essendo ormai in rovina, del teatro sono rimaste solo le fondamenta.
Ciò mi ha fatto riflettere su quanto fossero avanzate le tecniche di costruzione degli antichi romani. Infatti è molto raro che le fondamenta di un edificio si conservino per duemila anni.
Dopodiché, ho raggiunto le statue di Umberto Saba e James Joyce, due scrittori e poeti che hanno ricordato la città di Trieste nelle loro opere. Il viaggio è continuato poi nella città di Lubiana, capitale della Slovenia, che dista solo un’ora da Trieste. Penso che Lubiana sia stata la città balcanica che mi ha affascinato di più: piena di ponti, edifici colorati e zone verdi.
Nella piazza principale c’era la statua di France Prešeren, poeta sloveno considerato dagli abitanti alla pari del nostro Dante. Un’altra cosa che mi ha colpito è che Lubiana, nonostante si trovi più isolata dal resto d’Europa, possiede più fascino e bellezza di molte capitali europee.

Sabato 24 marzo

Questa mattina saremmo dovuti partire per Sarajevo, ma a causa di un imprevisto (all’autista hanno rubato i documenti) siamo “costretti” a rimanere a Lubiana qualche ora in più, nell’attesa di un nuovo autista. Ma non tutti i mali vengono per nuocere: infatti abbiamo fatto un altro giro, addentrandoci in una parte di Lubiana che ieri c’era sfuggita. Camminando lungo una via di questo quartiere abbiamo notato che alcune paia di scarpe erano appese ai fili della corrente elettrica ed essendo curiosi abbiamo chiesto a un passante cosa significasse quel gesto. Egli ha risposto che quando una persona muore si usa appendere delle scarpe ai cavi elettrici per ricordarla.
Questo quartiere era particolare anche per i suoi graffiti. Due in particolare mi hanno stupito: il primo era un cuore dentro al quale vi era scritto“capitalism you are driving me crazy” (capitalismo mi stai facendo impazzire), l’altro invece raffigurava il simbolo dell’anarchia. Questi graffiti dimostrano che pure a Lubiana, nonostante sia lontana dal resto d’Europa, ci sono manifestazioni anarchiche e anticapitalistiche.
Nel primo pomeriggio l’autista è arrivato e siamo partiti per Sarajevo. Il viaggio è stato interminabile: più di dieci ore di pullman.
Una volta oltrepassata la frontiera per entrare in Bosnia, subito si sono presentate a noi case distrutte e colpite dalle bombe in una zona sperduta e desolata. Tutto era buio intorno a noi, sembrava quasi che i nostri pullman fossero i soli a vagare nella notte. La prima sensazione che provai fu una sorta di tristezza: vedendo quelle case bombardate mi chiesi perché l’uomo era arrivato a compiere un atto così violento come l’uccisione di oltre 11mila persone.
Siamo arrivati in hotel circa un’ora dopo.

Domenica 25 marzo

Oggi visita di Sarajevo. Ci siamo incontrati con la nostra guida e con Jovan Divjak, un generale bosniaco che ha partecipato alla guerra. Insieme siamo saliti sul colle più alto della città, dal quale si godeva di una vista magnifica. Durante la salita abbiamo siamo passati di fianco al cimitero musulmano, costituito da tombe che hanno la forma di obelischi bianchi. La cosa che però mi ha impressionato di più è stata la quantità di queste tombe bianche, che si estendevano dall’inizio del colle fino ad arrivare in pianura. Il generale Divjak ci ha raccontato la sua esperienza durante la guerra: allo scoppio della guerra nel 1991, egli si era arruolato nell’esercito serbo. Tuttavia, nel maggio 1992, quando iniziò l’assedio di Sarajevo, egli passò dalla parte dei “ribelli”: lasciò quindi l’esercito e si schierò con la popolazione croata e bosniaca rimasta in città, guidandone la difesa.
Dopodiché la nostra visita è continuata nel centro della città: abbiamo visto la moschea musulmana, la sinagoga ebraica, la cattedrale del Cuore di Cristo (cattolica) e la cattedrale serbo-ortodossa. Quella che mi è piaciuta di più come stile ed architettura è stata l’ultima: in stile barocco, la cattedrale serbo-ortodossa è sormontata da cinque cupole con un campanile all’entrata. Verso mezzogiorno, per rifocillarci, ci siamo fermati a pranzare in un ristorante la cui specialità era il cevapcici, piatto tipico bosniaco. Esso è costituito da un pezzo di pita (pane morbido lievitato) riempito con piccole salsicce di manzo e vitello, panna acida e cipolle.
Penso che sia la cosa più buona che ho mangiato durante questo viaggio. Nel pomeriggio abbiamo visitato il Tunnel della speranza. Questo tunnel fu costruito dagli assediati bosniaci con lo scopo di collegare la città di Sarajevo con l’area neutrale dell’aeroporto, in cui si trovava l’ONU.
Ciò permise ai soldati delle Nazioni Unite di rifornire la città di cibo, acqua e medicinali.

Lunedì 26 marzo

Quest’oggi abbiamo fatto visita al sacrario di Srebrenica. La cosa che mi ha colpito di più non appena siamo scesi dal pullman è stato il diverso colore che avevano le lapidi delle vittime.
Infatti, alle persone i cui corpi sono stati ritrovati era stata messa una lapide di marmo bianco, mentre coloro i cui corpi erano dispersi era stata messa una lapide di legno dipinta di verde.
Dopo una breve spiegazione introduttiva, in cui ci hanno spiegato che quel luogo è stato creato per ricordare e seppellire le vittime del genocidio del 1995, siamo andati in un capannone dove era esposto un reportage fotografico sulla guerra. Abbiamo anche visto un documentario in cui alcune madri raccontavano, con le lacrime agli occhi, in che modo avevano perso i loro figli durante la guerra. La visione di questo filmato mi ha fatto provare un senso d’angoscia e disgusto per le atrocità di guerra. Dopodiché abbiamo visitato un edificio adiacente parzialmente distrutto dai bombardamenti.
La visita a Srebrenica è stata quella che ha avuto su di me l’impatto emotivo più grande: l’angoscia, la tristezza, il disgusto provati erano tali che desideravo andarmene da quel luogo il più presto possibile.

Martedì 27 marzo

La destinazione odierna è stata Tuzla. Grazie all’associazione Tuzlanska Amica, abbiamo visitato una casa-famiglia in cui i bambini che hanno una situazione familiare difficile vengono accolti ed educati. Poi abbiamo visitato il cimitero di Tuzla e la cosa che mi ha più impressionato è stata l’età dei morti: la maggior parte di loro non aveva nemmeno vent’anni.
Dopo la spiegazione che la guida ci ha fornito sulla storia di Tuzla ed in particolare sul cimitero, il nostro compagno Massimo ha intonato al clarinetto un adagio di Mozart, affinché potessimo comprendere attraverso quella musica dal tono grave la tristezza provata dalle famiglie delle vittime.
In seguito, abbiamo visitato il centro di Tuzla e nel pomeriggio alcuni di noi hanno giocato una partita di calcio con alcuni ragazzi della casa-famiglia.

Mercoledì 28 marzo

Partenza da Sarajevo. Ricorderò i giorni passati in questa città con gioia. La prima tappa che abbiamo fatto è stata Mostar. Si tratta di una città turistica situata sul fiume Narenta, il cui ponte fu distrutto dai bombardamenti della guerra nel 1993 e ricostruito solo nel 2004. La guida ci ha raccontato che esiste tra gli abitanti di Mostar una sorta d’inimicizia risalente alla guerra: la popolazione è infatti composta da croati-bosniaci e bosniaci-musulmani che durante il conflitto si combattevano gli uni contro gli altri. Questa ostilità rimane ancora oggi, nonostante la guerra sia finita da più di quindici anni.
Dopodiché abbiamo passato qualche ora a fare acquisti e in seguito siamo partiti per Dubrovnik. Arrivati verso sera, ci siamo concessi una passeggiata nel centro della città. Dubrovnik è una città di mare, che ricorda molto le nostre Rimini e Riccione (mare inquinato a parte).

Giovedì 29 – Venerdì 30 marzo

Abbiamo visitato la città percorrendo le mura, lunghe 1940 metri. È stata una passeggiata piuttosto intensa, però ne è valsa la pena: le mura sono alte fino a 25 metri e da quell’altezza si ha una vista di Dubrovnik favolosa!
Dopo la passeggiata e una breve visita del centro città siamo partiti per Spalato, dove ci siamo imbarcati sul traghetto. La traversata dell’Adriatico è stata lunga, abbiamo impiegato circa dieci ore per raggiungere Ancona, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. In meno di due ore eravamo già a Bologna.

Considerazioni finali

Penso che non dimenticherò mai questo viaggio d’istruzione e sono contento di avervi partecipato perché, nonostante il forte impatto emotivo che ha suscitato in me, ho imparato qualcosa di più su una guerra che si è svolta in tempi recenti. Inoltre, ho avuto la possibilità di visitare città bellissime, che mi hanno veramente affascinato e che spero un giorno di poter rivedere.

lunedì 9 aprile 2012

STORIA - DOCUMENTI: La lettera di Einstein contro il giuramento di fedeltà al fascismo


La lettera di Einstein "al signor Alfredo Rocco, ministro nel governo Mussolini"


Egregio signore,

due dei più autorevoli e stimati uomini di scienza italiani, turbati nelle loro coscienze, si rivolgono a me e mi pregano di scriverle al fine di impedire, se possibile, un duro provvedimento che minaccia gli studiosi italiani. Si tratta del giuramento di fedeltà al regime fascista. La mia preghiera è che lei voglia consigliare al signor Mussolini di risparmiare al fiore dell’intelletto italiano un’umiliazione simile.
Per quanto diverse possano essere le nostre convinzioni politiche, io so che v’è un punto fondamentale che ci unisce; entrambi riconosciamo e ammiriamo nello sviluppo intellettuale europeo il bene più alto. Esso si fonda sulla libertà di pensiero e di insegnamento e sul principio che la ricerca della verità deve precedere ogni altro fine. È solo basandosi su un tale principio che la nostra civiltà è potuta sorgere in Grecia, celebrando la sua rinascita in Italia nell’epoca del Rinascimento. Quel bene, il più prezioso che noi possediamo, è stato pagato col sangue di martiri, di uomini puri e grandi, per opera dei quali l’Italia è tuttora amata e onorata.

Non è mia intenzione discutere con lei le giustificazioni che la ragion di Stato può avanzare circa gli attentati alla libertà umana. Ma la ricerca della verità scientifica, svincolata dagli interessi materiali di tutti i giorni, dovrebbe essere sacra a ogni governo, ed è per tutti del più alto interesse che i leali servitori della verità scientifica vengano lasciati in pace. Ciò è anche, senza dubbio, nell’interesse dello Stato italiano e del suo prestigio agli occhi del mondo.

STORIA: DOCUMENTI E DISCUSSIONI - Il giuramento di fedeltà al fascismo


da Simonetta Fiori, I professori che dissero "NO" al Duce, http://www.storiaxxisecolo.it/antifascismo/antifascismo5.html

Rettori delle università italiane ricevuti da Mussolini - 26/1/1930
"Sublimato all'un per mille", titolò sprezzantemente un giornale d'obbedienza littoria. [...] Sopra questi isolati viaggiatori che attraversarono la terra del no è scesa per settant'anni una nebbia densa di rimozione e imbarazzo. Come se l'insidioso orizzonte da loro - soltanto da loro - varcato rimarcasse l'ipocrisia, la fragilità, lo spirito di accomodamento, anche la pavidità di cui diede prova larghissima parte degli intellettuali italiani.
Ora quell'"un per mille" deprecato dalla stampa fascista dell'epoca - e utilizzato ora strumentalmente da alcuni giornali di destra che vorrebbero così dimostrare il radicamento del fascismo nella cultura - è al centro di due saggi che escono curiosamente quasi in contemporanea. A giugno sarà in libreria Preferirei di no di Giorgio Boatti, che mostra in filigrana il percorso dell'intellighenzia italiana attraverso dodici personalità differenti per origine, carattere, modi di pensare, attitudini sociali (Einaudi, pagg. 350, lire 28.000). Mentre è già disponibile il documentatissimo volume del tedesco Helmut Goetz, Il giuramento rifiutato, I docenti universitari e il regime fascista (La Nuova Italia, pagg. 314, lire 48.000), frutto di una puntigliosa ricerca condotta per trent' anni in archivi, memorie, giornali, corrispondenza privata, con inedite testimonianze personali che aprono inattesi squarci sui tormenti di coloro che s'adeguarono.
Discorso inaugurale del nuovo anno accademico - 10/11/1938

Sbaglia chi cercasse tra gli irriducibili dei "pericolosi sovversivi". Gli accademici più a sinistra seguirono il consiglio di Togliatti, che invitò i compagni professori a prestare giuramento. Mantenendo la cattedra, avrebbero potuto svolgere "un'opera estremamente utile per il partito e per la causa dell'antifascismo" (così Concetto Marchesi motivò a Musatti la sua scelta di firmare). Anche Benedetto Croce, stella polare dell'antifascismo, incoraggiò professori come Guido Calogero e Luigi Einaudi a rimanere all'università, "per continuare il filo dell'insegnamento secondo l'idea di libertà". Ci si mise anche il papa, Pio XI, che su idea di padre Gemelli elaborò un escamotage per i docenti cattolici: giurate, ma con riserva interiore.
Nonostante questa ciambella di salvataggio, gettata dall'influente troika, un'eroica minoranza disse di no. Nella minuscola schiera figurano tre giuristi (Francesco ed Edoardo Ruffini, Fabio Luzzatto), un orientalista (Giorgio Levi Della Vida), uno storico dell'antichità (Gaetano De Sanctis), un teologo (Ernesto Buonaiuti), un matematico (Vito Volterra), un chirurgo (Bartolo Nigrisoli), un antropologo (Marco Carrara), uno storico dell'arte (Lionello Venturi), un chimico (Giorgio Errera) e uno studioso di filosofia (Piero Martinetti). "Nessun professore di storia contemporanea, nessun professore di italiano, nessuno di coloro che in passato s'erano vantati di essere socialisti aveva sacrificato lo stipendio alle convinzioni così baldanzosamente esibite in tempi di bonaccia", lamentò l'esule Salvemini, il più sanguigno tra i censori dei firmatari.
Diversi per estrazione sociale e radici culturali - altoborghesi e figli di tabaccaio, religiosissimi e anticlericali, socialisti e liberali, repubblicani e monarchici, ebrei e cattolici - i dissidenti sono apparentati da una spessa moralità e da un'indole naturalmente fuori del coro. Nella vita di ciascuno di loro c'è un gesto dirompente - uno scatto ribelle, un moto di anticonformismo, forse una vena di follia - che appartiene, se non al loro personale carattere, al Dna familiare. Il prete modernista Buonaiuti aveva sfidato l'autorità della Chiesa, il criminologo Carrara il potere accademico, affiancandosi a quel Cesare Lombroso emarginato nella comunità scientifica. Lo scienziato Errera aveva respinto nel 1923 il Rettorato dell'Università di Pavia, "perché non si sentiva adatto". Del filosofo Martinetti si racconta che, rivolto all' esaminando Lelio Basso già condannato al confino di Ponza, proruppe: "Ma io non ho alcun diritto di interrogarla sull'etica kantiana: resistendo a un regime di oppressione lei ha dimostrato di conoscerla molto bene. Qui il maestro è lei. Vada pure, trenta e lode".
Quasi tutti - ad eccezione di pochi, Volterra e Ruffini, Venturi e Luzzatto - s'erano tenuti lontani dalla politica attiva, eppure animati da un radicato civismo che li spinse nel 1925 a firmare il celebre manifesto di Croce. Ricorrono nelle loro motivazioni una "repugnanza quasi fisiologica al fascismo" (Levi Della Vida), un'insofferenza morale "alla sua tronfia rettorica" e "alla sconcia apologia della violenza". Rifiutarono il giuramento in quanto contrario alla loro coscienza, agli "ideali di libertà, dignità e coerenza interiore" nei quali erano cresciuti. "Giuramento simile io non mi sento di farlo, e non lo faccio", replica con semplicità il chirurgo Nigrisoli alle ripetute sollecitazioni del rettore. Le conseguenze non erano da poco: perdita della cattedra, una pensione al minimo, persecuzioni, divieti, una vigilanza stretta e oppressiva.
Al lettore di oggi il loro gesto ribelle - motivato da tutti con sobrietà - appare quasi epico. Specie se raffrontato alla genuflessione dei loro colleghi. Tra coloro che giurarono fedeltà al duce figura il meglio della cultura antifascista, da Guido De Ruggiero ad Adolfo Omodeo, da Federico Chabod a Giuseppe Lombardo Radice, da Gioele Solari ad Arturo Carlo Jemolo, da Piero Calamandrei al mitico Giuseppe Levi. Alcuni erano persuasi che la battaglia antifascista andasse condotta dall'interno, ma per larga parte agiva il timore della miseria. [...]
Tra i professori che cambiarono opinione figura Giuseppe Levi, anatomista e istologo di fama internazionale, antifascista conclamato che aveva tenuto nascosto a casa sua Filippo Turati. Da un iniziale diniego, fu spinto a firmare dai suoi assistenti, "che temevano di perdere il maestro e la carriera". Levi giurò dopo che il ministro Giuliano gli aveva assicurato verbalmente che il giuramento era una pura formalità. Profondamente turbato, il papà di Natalia Ginzburg spiegò in aula il suo dilemma. "E gli studenti, felici di vederlo rimanere, lo ringraziarono con un uragano di applausi". Tranquillo cinismo (l'espressione è di Gennaro Sasso) mostrò l'illustre glottologo Giacomo Devoto: il giuramento ebbe per lui "il valore di un bicchiere di acqua fredda".
[...]
Alla metà degli anni Sessanta, a favore alla piccola schiera di irriducibili, ci fu chi diede battaglia, proponendo che i loro nomi fossero scolpiti sui muri delle università italiane. Si chiamava Ignazio Silone, e chissà cosa passava per la sua mente.

(La Repubblica, 16 aprile 2000)

 Domenica 16 aprile nelle pagine della Cultura di Repubblica è uscito un articolo di Simonetta Fiori intitolato "I professori che dissero no a Mussolini". A proposito di quell'articolo sono giunte tre lettere, che qui pubblichiamo: una degli eredi di Giuseppe Antonio Borgese, un'altra del nipote di Errico Presutti e un'altra ancora di Jader Jacobelli

Caro Direttore, nel prendere visione del libro di Helmut Goetz, Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, recensito su la Repubblica da Simonetta Fiori, abbiamo constatato con stupore che Giuseppe Antonio Borgese non figura tra i professori che rifiutarono di firmare il giuramento di fedeltà al regime fascista. È accertato che Borgese, in missione negli Stati Uniti, al momento dell'imposizione del giuramento nel 1931, non riprese servizio all'Università di Milano dove era ordinario di Estetica. La sua decisione di non rientrare in Italia fu motivata proprio dal rifiuto di prestare giuramento, come risulta da due lettere scritte dagli Stati Uniti a Mussolini nel 1933, nelle quali motivava il suo no al fascismo (pubblicate due anni dopo a Parigi sui Quaderni di Giustizia e Libertà). Borgese comunicò inoltre la sua decisione in una lettera al Rettore dell'Università di Milano in data 18 ottobre 1934: "Prego la S.V. di voler prendere nota che io non ho prestato, né mi propongo di prestare, il giuramento fascista prescritto ai professori universitari".
Sappiamo che Goetz si è occupato della posizione di Borgese rispetto al fascismo e al giuramento dei professori in un articolo del 1980, apparso sulla rivista dell'Istituto Storico Germanico di Roma. Anche per questo ci sorprende che nel libro di Goetz, pubblicato in Germania nel 1993, Borgese sia completamente ignorato. Ci sembra che l'omissione di una verità accertata e riconosciuta dai maggiori storici del fascismo sia grave e che nessun atteggiamento critico nei confronti di Borgese possa giustificarla.
Elisabeth Mann Borgese, Nica Borgese, Giovanna Borgese

* * *

Caro direttore, sono rimasto molto sorpreso nel constatare che nel volume di Helmut Goetz, accuratamente recensito da Simonetta Fiori, non si fa alcun cenno a proposito di mio nonno Errico Presutti, professore di Diritto amministrativo e di Diritto costituzionale a Napoli fino all'avvento del fascismo, dichiarato decaduto dalla Cattedra universitaria per essersi rifiutato di prestare il giuramento di fedeltà al regime. Errico Presutti fu Sindaco di Napoli nel 1917 e deputato per due legislature nel 1921 e nel 1926; fece parte dell' Aventino e fu quindi dichiarato decaduto dal mandato parlamentare; fu fin dall'inizio profondamente antifascista e lottò contro il regime insieme a Giovanni Amendola e a Roberto Bracco; il regime gli impedì, di fatto, di esercitare persino la professione legale nella quale era maestro. Pur essendo stato colpito da una paralisi totale che forzatamente lo estraniò dalla lotta politica e da qualsiasi attività, nel 1944 il Comando militare alleato, su proposta della Università di Napoli, gli conferì il titolo di Professore Emerito e successivamente il Ministro dell'educazione nazionale, De Ruggiero, lo reintegrò nella Cattedra universitaria a vita. Infine, a riconoscimento dei sacrifici sopportati nella sua opposizione al fascismo, venne eletto all'Assemblea costituente, alle cui sedute non poté mai partecipare per le sue condizioni di salute. Morì nel 1949 e le tappe della sua vita, che per obbligo di verità storica ho fin qui ricordato, vennero ripercorse alla Camera dei deputati nella commemorazione tenuta dall'on. La Rocca nella seduta del 26 luglio 1949.
Cordiali saluti.
Stefano Maria Cicconetti

* * *

Caro direttore, nel bell'articolo che Simonetta Fiori ha dedicato ai saggi di Giorgio Boatti e di Helmut Goetz sul giuramento fascista dei professori universitari nel 1931, si dice che esso fu imposto "dalla regia di Giovanni Gentile". Ma per la verità storica sarebbe bene ricordare che quel giuramento, nella bozza scritta dal grande filosofo, non prevedeva la fedeltà al regime, ma soltanto alla Monarchia, allo Statuto, e l'impegno di formare cittadini operosi, prodi e devoti alla Patria". Fu il ministro della Pubblica istruzione, Balbino Giuliano a fare quell'aggiunta.
Andrebbe anche ricordato che l'unico che rivolse ai tredici professori che non giurarono un pubblico riconoscimento fu Gentile. Nel verbale della seduta del Consiglio di Facoltà di Roma dell'11 gennaio 1932 si legge: "Il prof. Gentile prende la parola per dichiarare che certamente nell'animo della Facoltà, al rammarico per l'allontanamento di così insigni colleghi s'aggiunge un sentimento di stima pel nobile atto da essi compiuto per restare fedeli alla propria coscienza e compiere un dovere di lealtà verso il Regime... La Facoltà non può non rendere merito a questi colleghi, costretti ad allontanarsi da noi per una giusta legge, di aver dato ai giovani un encomiabile esempio di schietto e dignitoso carattere".
"Lacrime di coccodrillo" disse il professor Giorgio Levi della Vida, che non aveva giurato e se n'era andato, ma nelle sue memorie intitolate Fantasmi ritrovati scrisse: "Ripensandoci su, mi accorgo di essere stato cattivo; erano, sì, lacrime di coccodrillo, ma di un buon coccodrillo al quale veramente dispiaceva che l'inesorabile processo dialettico della storia lo avesse costretto a mangiare le sue vittime, e ora piangeva su di loro in assoluta sincerità di cuore".
Basta ciò a cancellare le responsabilità dell'adesione di Gentile a un regime dittatoriale? No, davvero. Ma ci dice come il fascismo di Gentile fosse "diverso".
Jader Jacobelli

Innegabile la "diversità" del fascismo di Gentile. Ma a proposito della regia sul giuramento di fedeltà al fascismo, la ricerca di Goetz rivela un suo appunto inedito indirizzato il 5 gennaio del 1929 a Mussolini. Scrive Gentile: "Esso (ndr, l' articolo 22 della legge sull'insegnamento universitario, ossia l'articolo del giuramento) con una breve aggiunta alla formula vigente potrà, come ho avuto l'onore di esporre a voce, risolvere la questione delicata e ormai urgente della fascistizzazione delle Università Italiane". L'integrazione alla formula di giuramento sarà poi realizzata da Balbino Giuliano. (S.Fio).

(La Repubblica, 23.4.2000)


I nomi dei docenti che rifiutarono di prestare giuramento furono:

FABIO ZUCCONI - Il discorso di Roberto Benigni del 17 marzo 2012


Il 17 marzo 2012 si sono concluse le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia.
Per l’occasione il Quirinale ha chiamato l’attore e comico Roberto Benigni per leggere e commentare alcuni documenti riguardanti la storia italiana dal 1861 al 1945. In primo luogo egli ha letto il testo pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 1861 della proclamazione dell’unità, che costituisce l’atto di nascita del Regno d’Italia.
In questo contesto Benigni ha parlato dei tre padri che hanno auspicato l’unificazione: Cavour, Mazzini e Garibaldi. Il primo è - a parere di Benigni - senza dubbio il più grande statista del XIX secolo. Cavour infatti non si fidava delle dittature e aveva un concetto del Parlamento giusto e democratico. Giuseppe Mazzini, invece, elaborò originalmente il concetto di patria: secondo lui, essa non s’identifica con il territorio, ma con l’idea che ne hanno i cittadini, con il senso di unione che accomuna tutti quelli che vi abitano. Egli sosteneva che una patria non poteva essere tale se non erano garantiti il diritto di voto, l’educazione e il lavoro, insistendo in particolare su quest’ultimo punto, poiché gli uomini che non hanno lavoro non percepiscono il territorio in cui vivono come patria. Si tratta senz’altro di un’idea moderna e all’avanguardia che è valida tuttora. Per quanto il pensiero di Giuseppe Garibaldi, forse il più innovativo tra tutti, egli immaginava una confederazione tra le nazioni europee, un grande unico Stato che, grazie alla sua potenza, nessuno avrebbe osato attaccare. Questa “unione” avrebbe soprattutto favorito la fine delle ostilità tra nazioni europee, in particolare tra Francia e Inghilterra, e anche l’entrata della Russia, socialmente ed economicamente arretrata, all’interno dell’Europa. Il fatto più straordinario riguardo Garibaldi è la sua lungimiranza: egli nell’Ottocento aveva già preconizzato l’Unione Europea, nella quale sarebbero confluiti tutti i paesi d’Europa, rispettando i valori di pace, associazione, sicurezza, fratellanza ed uguaglianza[1].
Successivamente l'attore è passato alle memorie relative alla Grande Guerra. A questo proposito, ha letto una poesia intitolata Voce di vedetta morta, scritta da Clemente Rebora, poeta che combatté sul Carso rimanendo gravemente ferito:
C'è un corpo in poltiglia
con crespe di faccia , affiorante
sul lezzo dell'aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
Affar di chi può e del fango.
Però se ritorni
tu uomo, di guerra
a chi ignora non dire;
non dire la cosa, ove l'uomo
e la vita s'intendono ancora.
Ma afferra la donna
una notte dopo un gorgo di baci,
se tornare potrai;
soffiale che nulla nel mondo
redimerà cio ch'è perso
di noi, i putrefatti di qui; stringile il cuore a strozzarla:
e se t'ama, lo capirai nella vita
più tardi, o giammai.

La poesia esprime umanità attraverso la pietà e la compassione per la sentinella che si trova in mezzo al fango colpita da un proiettile. In questo contesto Rebora rimane attaccato alla vita pensando al futuro, alla donna che ama e che rivedrà una volta finita la guerra.
Nel 1921, proseguendo nel viaggio storico proposto da Benigni, il Parlamento fece erigere un monumento al Vittoriano in onore del milite ignoto, un soldato non identificabile caduto in guerra. Questo fatto è importante perché in Italia mai prima di allora era stato realizzato un monumento per qualcuno che non godesse di un certo rilievo sociale. Il fatto è ancora più eclatante se si pensa che esso è stato eretto al Vittoriano, il monumento con il quale si celebrava Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia.

Dalla Grande Guerra, Benigni salta direttamente agli anni ’30, quando il fascismo era ormai diventato l’ideologia dominante. Infatti, un regio decreto del 1931 obbligava tutti i professori universitari a giurare fedeltà al regime fascista. Su 1250 docenti, solo 14 rifiutarono, e l'attore ritiene giusto ricordarne ad alta voce i nomi. Tra di loro spiccano due personaggi importanti: Giuseppe Antonio Borgese (scrittore) e Bartolo Nigrisoli (chirurgo).
Tuttavia c’erano alcuni intellettuali che già nel 1925 avevano capito che il fascismo avrebbe preso il sopravvento e che quindi si dimisero volontariamente dall’insegnamento. Essi erano Gaetano Salvemini e Francesco Saverio Nitti, due dei politici più antifascisti durante il governo di Mussolini.
A questo punto Benigni arriva alle legge razziali, la cui tragicità, secondo il comico, sfiora il ridicolo e di cui quindi non si può che parlare in modo ridicolo. A questo proposito cita una poesia di Trilussa, poeta dialettale romano, che parla di un uomo che ha gatto con un nome ebreo e che vuole farlo diventare ariano. Così si reca da un suo amico prefetto che, appurata l’origine dei genitori, gli firma un documento che dichiara il gatto di razza ariana. Ovviamente si tratta di un’estremizzazione della questione della razza, con la quale si vuole sottolineare quanto ridicolo fosse considerare gli ebrei una “razza”, e per di più inferiore.
Infine Benigni parla della Resistenza, e a questo proposito legge alcune lettere di ragazzi sui 18-20 anni che vi hanno partecipato come partigiani. Essi scrivono alle rispettive famiglie un saluto di addio poche ore prima di essere fucilati e dicono di essere innocenti, di morire per una giusta causa e invitano a non disperarsi per loro. C’è stato però un dettaglio, che essi raccontavano, che mi ha veramente ripugnato ed è stato l’atteggiamento dei giudici. Essi ridevano e si prendevano gioco di loro mentre leggevano la sentenza di morte. È invece da ammirare il gesto eroico compiuto da quei giovani ragazzi, che con il loro coraggio hanno combattuto strenuamente, liberando l’Italia dagli invasori. Grazie al loro sacrificio l’Italia è diventata una repubblica democratica, con una Costituzione che sancisce i valori fondamentali della nostra Patria.






[1] Va ricordato tuttavia che l’idea di Europa era comparsa per la prima volta nel XV secolo, in un’opera di Enea Silvio Piccolomini (Papa Pio II), intitolata De Europa. In quel periodo, infatti, si auspicava l’unione di tutte le potenze europee per difendersi dall’attacco dei turchi-ottomani.

sabato 7 aprile 2012

MARCO SHAQIRI - Italia, paese di migrazioni


Il fenomeno della migrazione è presente tra le comunità umane fin dai tempi più remoti. I motivi sono piuttosto diversi, ma legati fra loro da un'unica vera causa: la ricerca di condizioni migliori.
Molti Paesi hanno dovuto affrontare momenti difficili, che hanno mobilitato parti della popolazione a spostarsi in luoghi differenti, come è successo anche a uno stato europeo dalla storia singolare: l'Italia.
Tra il 1876 e il 1976 se ne andarono dall'Italia in 27 milioni.
Su piccoli frammenti di fatti passati, il popolo italiano si è creato uno stereotipo di italiano-straniero ben accolto, con grandi capacità di adattamento e capace di trasformare le difficoltà in fortuna.

La storia intera ha mostrato, invece, un'altra faccia. Anche oggi, infatti, ondate di clandestini sbarcano sulle coste italiane, adeguandosi spesso a condizioni disumane e subendo il disprezzo della popolazione locale. La gente, però, si dimentica che un tempo anche i loro nonni era stati clandestini, considerati di minor valore di uno straccio.
E' noto che il viaggio al quale erano costretti gli emigranti era spesso disumano. Una volta arrivate, le famiglie degli emigranti venivano sfruttate persino dagli stessi connazionali: popolo dello stesso sangue, cercavano però di approfittarsi l'un dell'altro, fino a estorcere denaro in cambio di false promesse. Emigranti senza documenti di tutte le età erano obbligati a lavorare ininterrottamente 10-12 ore al giorno per misere paghe, senza alcun tipo di sicurezza. Ad aggravare la situazione era il fatto che venivano presi di mira e derisi dagli individui più potenti.
Gli unici posti che li accoglievano erano luoghi e case sub-standard, in condizioni di igiene raccapriccianti, nel freddo, a rischio di malattie. Il cibo scarseggiava e se c'era, era di bassa qualità. Spesso, perciò, molti morivano di fame, freddo, malanni o distrutti dal lavoro.
Questi fattori gravavano sugli immigrati, sviluppando in loro contrastanti pensieri: dalla sottomissione alla ribellione, dalla rassegnazione al disprezzo.
In ogni caso, lo straniero ha sempre cercato di farsi strada in una società aliena e di far valere i propri diritti. I metodi sono stati svariati: alcuni hanno rifiutato le proprie origini pur di farsi valere e di donare ai pronipoti un futuro ed una condizione di vita migliore. In altri è cresciuto il rimpianto per la patria lontana; essi hanno lottato per far contare la propria storia, e, alcune volte, questo è sfociato in una ribellione, anche violenta.
In Italia, oggi, la situazione per gli immigrati stranieri è simile: i cosiddetti "clandestini" vengono rifiutati dalla società; le questure chiedono cifre esorbitanti e il conseguimento di elevatissimi standard di vita per dare, forse, i documenti per la regolarizzazione, ma quasi sempre di brevissima scadenza. Le persone razziste, dimenticando il passato, si credono migliori, mentre si diffondono i pregiudizi: se uno straniero sbaglia, tutta la sua etnia diventa ''sbagliata'', mentre per gli errori commessi da italiani vige in generale la buona regola del ''non far dei fili d'erba tutto un fascio'' .
Forse questo atteggiamento è un sorta di vendetta con la quale il popolo italiano riscatta la storia passata, oppure è semplicemente una dimostrazione  che l'uomo non cambia e che la storia si ripete sempre.

Susanna Regazzi - Viaggio in Bosnia: immagini ed emozioni


Verso Sarajevo:


Il pullman sfrecciava nella pianura completamente buia già da qualche ora, quando abbiamo intravisto nella luce dei fanali le prime case in rovina. Per chilometri e chilometri scorrevano ai nostri lati soltanto figure grigie, pareti senza tetti, colonne senza pareti, come fossero i fantasmi dei paesi popolati e luminosi che vi erano poco più di 15 anni fa. Forse a causa delle nostre aspettative o forse per qualche empatia con il silenzio circostante, ci sentivamo oppressi e abbandonati nel guardare l'impronta lasciata dalle granate. Si aveva l'impressione che, oltre quella breve visione fatta di istanti e di pochi metri, oltre l'asfalto vi fosse nascosto qualcosa che non riuscivamo a carpire, ma che ci pervadeva di una tristezza soffocante e inesprimibile.

Sarajevo:


Sarajevo è come un tessuto di case e di tombe, ci sono bianche lapidi sparse tra le vie e i giardini, fino a isolati alternati alle colline ricoperte di cimiteri. In questa capitale, più che mai, la vita e la morte coesistono l'una accanto all'altra: la distruzione della guerra e a fianco l'irresistibile slancio verso la rinascita. Allo stesso modo, in una città così speciale, laddove diverse culture si compenetrano e si sommano costituendo una società multietnica e ricca, la ricchezza, anche e spesso, divide.

Srebrenica:


Le colline ancora minate tutto intorno erano come un'eco all'assedio. Abbiamo camminato tra le lamiere mutilate della ex base olandese, in silenzio. Dentro i capannoni della strage l'aria stessa ricordava l'orrore. Appese alle pareti, le immagini non suscitavano commenti, ma un muto sguardo sgomento. All'uscita dalla sala del video, nessuno aveva più parole, tutti hanno capito come sia difficile esprimere in modo umano ciò che è solo disumano. Nemmeno le lacrime potevano cadere. Da quel giorno è rimasta dentro di noi solo una sorda e grave amarezza.

venerdì 6 aprile 2012

LUCA LANZA - Il brigantaggio

Analisi del brano "Il tesoro dei briganti", da Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi


Nell’incipit del brano intitolato “Il tesoro dei briganti”, tratto dal romanzo di Carlo Levi Cristo si è fermato a Eboli, emerge forte e evidente il desiderio di giustizia da parte della popolazione contadina che, per secoli, aveva vissuto sottomessa a varie potenze.

La principale forma di violenta ribellione è rappresentata dal fenomeno del brigantaggio: i briganti non erano altro che contadini che, non potendo trovare nessuna espressione nello stato e nessuna difesa nelle leggi, intraprendevano azioni violente che culminavano anche nell’omicidio, per poi avviarsi rassegnati alla prigione.

L’autore ha l’occasione di conoscere un ex-brigante che vive tranquillamente a Grassano, frequenta il barbiere e conduce una vita tranquilla e rispettabile. Racconta brevemente la sua storia, culminata nell’omicidio di un carabiniere, il cui ricordo non gli pesa affatto sulla coscienza ma appartiene ad un periodo della vita che egli considera di "guerra". Pertanto, l’atto rientrava inevitabilmente e naturalmente in un’azione di guerra.

Ancora l’autore viene a conoscere la storia di un ex-brigante di 90 anni, che in paese è considerato e venerato come un santo; a lui ricorrono tutti i contadini per i consigli in situazioni difficili della vita. L’autore è dispiaciuto di non poterlo conoscere, probabilmente poiché perde l’opportunità di far luce sui tanti perché del brigantaggio.

Infine, una volta il barbiere gli indica un’importante proprietario terriero il cui nonno, non avendo voluto sottostare alle richieste dei briganti, venne rapito e perse un orecchio prima che la famiglia pagasse il riscatto. Infatti era prassi dei briganti tagliare le orecchie, il naso e la lingua dei signori per farsi pagare i riscatti. Al contrario, i soldati tagliavano direttamente la testa ai briganti che riuscivano a catturare e le attaccavano sui pali nei paesi perché servissero da esempio.

Era una guerra di distruzione e di logoramento da entrambe le parti: i briganti erano facilitati perché conoscevano la morfologia dei monti, scavati di buche e di grotte naturali, dove si riparavano e nascondevano i denari delle taglie e il bottino delle loro rapine. Una volta che il fenomeno del brigantaggio fu sgominato, quei tesori rimasero nascosti nella terra e nei boschi, esistenza reale e concreta dei tesori che le credenze e le leggende avevano sempre immaginato.

Secondo Carlo Levi quella che si gioca tra i briganti e le forze dell’ordine è una guerra di distruzione che da una parte porta a bruciare il municipio o la caserma dei carabinieri o le masserie dei proprietari terrieri, dall’altra invece mira all’eliminazione fisica dei banditi. Questi diventano tali poiché decidono di farsi giustizia da sé, visto che né lo stato né le leggi li tutelano, e quindi fanno delle rapine e degli omicidi i loro principali mezzi di giustizia. Invece, i carabinieri rappresentano lo strumento con cui lo stato vuole fermare i briganti. Secondo l’autore i briganti prima di arrivare ad una violenza fisica cercano di ottenere con le buone grano o bestie; al rifiuto passano al rapimento dei signori e alla domanda di riscatto alla famiglia, resa più incalzante con l'invio di macabre parti del rapito, seguendo una specie di comportamento prefissato. Al contrario, lo stato, per debellare la piaga del brigantaggio , taglia la testa ai banditi catturati, a suo dire per esempio, ma di fatto scatenando la reazione dei briganti e riaccendendo la guerra. Certo, alla fine lo stato vincerà, perché può contare su un numero maggiore di uomini, prendendo per sfinimento i banditi, ma dimostrerà anche di non conoscere che il linguaggio della violenza.

Inizialmente il sostantivo “distruzione” viene dunque adoperato da Carlo Levi per indicare uno stato di abbattimento fisico e mentale che si annida nella secolare sottomissione alla fatica quotidiana dei contadini, i quali cercano di reagire con una violenza, destinata però alla lunga al fallimento. Infatti, il banditismo, dopo un primo momento di successo, a causa della scarsa organizzazione e delle difficili condizioni di vita dei briganti è destinato infine al fallimento. Pertanto, anche il binomio di termini "distruzione-annichilimento" sottolinea l’impressione di un esito negativo dell’impresa dei contadini che si ribellano allo stato.

Durante l’incontro tra Levi e il brigante di Grassano, quest’ultimo chiama l’autore “esiliato” invece che “confinato”. Sembra così che il brigante consideri le terre della Basilicata non appartenenti allo stato italiano, poiché lo stato non è in grado di tutelare tutti i ceti della popolazione con la giustizia. Indubbiamente, l’immagine della monarchia italiana che si ricava è negativa, anche se si tratta di uno stato “giovane” che deve far fronte ancora a parecchi problemi di carattere interno.

Il movimento del brigantaggio nasce e trova l’appoggio dei contadini, che nei briganti vedono degli eroi leggendari, che rubano ai ricchi per dare ai poveri e che nascondono tesori immensi. I briganti che l’autore conosce vivono infatti tranquillamente nei loro paesi, con il pieno appoggio della popolazione, che addirittura li onora come santi. Forse questo avviene perché gli ex-banditi sono sopravvissuti ad una guerra di distruzione e perciò vengono considerati dei paladini e dei difensori dei deboli. Nella tradizione comune si pensava d'altronde che la forza dei briganti derivasse da patti stretti col Maligno e altre potenze oscure, che abitavano caverne e boschi, da sempre sede di entità sovrannaturali.

Quella di Carlo Levi appare come un’inchiesta documentaria sui briganti, in quanto l’autore da una parte riporta delle fonti dirette (l’incontro con l’ex-brigante nella bottega del barbiere, il racconto del barbiere stesso), dall’altra riprende un racconto fatto dalla sua domestica. Nei primi due casi Levi riproduce il racconto sotto forma di dialogo, invece nell’ultimo caso riferisce sotto forma di narrazione in prima persona la vita di un altro ex-brigante. Il lessico dei personaggi non è caratterizzato da forme dialettali come ci saremmo potuti aspettare. L’autore si pone in un atteggiamento di simpatia e di partecipazione nei confronti degli ex-briganti, e addirittura rimpiange di non aver potuto conoscere il più vecchio di questi. 


Il problema del brigantaggio non riguardava soltanto il sud ma anche, per esempio, la Romagna, dove è ancora viva la memoria del “Passatore”, che agì sotto lo Stato pontificio ma che rappresenta comunque un altro esempio di malcontento popolare. Come si è detto in precedenza, il brigantaggio fa parte di una serie di problemi di carattere interno che il giovane stato italiano doveva affrontare e risolvere, alla luce di un’unificazione che prima che sui territori doveva agire su popolazioni dalla lingua, dalle abitudini e dalle usanze diverse. Indubbiamente, la soluzione scelta dallo stato italiano fu anche di tipo violento, atta a risolvere il problema alle radici senza mezze misure e mezzi diplomatici. Questo atteggiamento per la fermezza e la durezza con cui veniva portato avanti si scontra con la mentalità dei contadini stanca di non vedere rispettati i propri diritti.

VIRGINIA MARANGON (Elena Benincasa) - Tra utopia e realtà: il trasformismo di Orwell

Il margine che separa l’universo del Grande Fratello e il trasformismo applicato da anni alla politica italiana non è così spesso come si potrebbe pensare.



La lettura del capolavoro di Orwell è l’ispirazione per l’avvio di una riflessione sull’importanza di abbandonare i fantasmi del passato trasformista e non accontentarci di ciò che la politica italiana ci propone:

“ […] Proprio allora era stato annunciato che l’Oceania non era in guerra con l’Eurasia. L’Oceania era in guerra con l’Estasia. L’Eurasia era una nazione alleata. […] Quando ciò avvenne, Wiston stava prendendo parte ad una manifestazione in uno dei parchi del centro di Londra. […] Da una piattaforma un oratore del Partito Interno arringava la folla. […] Il discorso andava avanti da venti minuti, quando un messaggero infilò un biglietto in mano all’oratore. […] In pochi minuti tutto era finito. L’Odio era proseguito come prima, aveva solo mutato bersaglio. Ciò che impressionò Winston era il fatto che l’oratore avesse mutato rotta nel bel mezzo di una frase. […] L’Oceania era sempre stata in guerra con l’Estasia. Gran parte degli scritti politici degli ultimi cinque anni era adesso divenuta obsoleta. Tutto doveva essere corretto a velocità supersonica.”


Ho appena terminato la lettura di 1984. Nella mente echeggia senza tregua una sola parola: “bipensiero”. Si tratta di un termine proprio della neolingua di G. Orwell, che esprime il meccanismo psicologico del farsi e disfarsi: tutto può essere creato e distrutto dal nulla. Così, un’idea e il suo opposto: ci si dimentica il cambio di opinione e persino l’atto stesso del dimenticare. La citazione riportata all’inizio dell’articolo è la diretta rappresentazione di questo concetto, secondo cui un’intera nazione da un momento all’altro può dirigere le proprie azioni belliche verso un Paese che fino a qualche istante prima era l’alleato, senza la minima incertezza.

Partendo da questo spunto, a distanza di più di un secolo dallo scandalo della Banca Romana e dal governo, prettamente trasformista, di Giovanni Giolitti, è necessario fare una breve ma rischiarante riflessione su come questo sistema politico pendolare, che per decenni ha oscillato tra Destra e Sinistra storiche e di cui Giolitti è stato l’emblema, abbia influenzato la politica italiana fino ad oggi. Il bipensiero orwelliano non è altro che una saturazione utopistica del trasformismo italiano: come i cittadini dell’Oceania non colgono la differenza tra muovere guerra contro l’Eurasia o contro l’Estasia, così in Italia a partire da fine Ottocento non si percepisce più la linea di separazione tra Destra e Sinistra in seno a ideologie e programmi di governo.

Ricostruendo il percorso politico che ha portato al trasformismo giolittiano volgiamoci all’impulso iniziale: il connubio Cavour-Rattazzi (1852), responsabile di aver isolato dal Parlamento le ali estremiste sia reazionarie sia progressiste. Successivamente, la prima concretizzazione del trasformismo, altrimenti detto degenerazione del connubio, si ha col governo di Depretis che, seguendo le orme cavouriane, cristallizzò lo scontro politico tra i poli opposti, allontanando l’Italia dall’orizzonte bipolare. Attraverso l’azione di Depretis la Sinistra storica perse di vista i capisaldi liberali del proprio partito, in direzione di posizioni sempre più moderate. L’essere tutt’uno di Destra e Sinistra è parso, inizialmente, positivo a molti intellettuali, che hanno visto in questo gesto uno strategico tentativo di eclissare gli attriti che già da prima dell’Unità caratterizzavano il governo italiano. In merito a questa posizione, Antonio Gramsci in Quaderni del carcere descrive polemicamente il fenomeno del trasformismo come giusta elaborazione dei quadri fissati dai moderati, nonché l’assorbimento degli elementi sorti dai gruppi alleati e da quelli che parevano nemici. Un moderato come Benedetto Croce, infatti, si schiera a favore del trasformismo di Depretis, apprezzando quella che secondo lui fu un’azione politica ben calibrata, volta a risolvere questioni che non avrebbero trovato soluzione in una divisione tra i due partiti.

Tuttavia, con il sopraggiungere del governo giolittiano, questa svolta politica si svuotò del suo significato originario e si tradusse in corruzione e clientelismo. Elezioni sporche, mazzette e molto altro fecero di Giolitti il ministro della malavita. Dal momento in cui salì al governo, il trasformismo cominciò ad essere visto sotto un’altra luce; Carducci lo definì brutta parola e cosa più brutta. La dubbia attività politica del Ministro raggiunse l’apice dell’immoralità con lo scandalo della Banca Romana, durante il quale furono fatti enormi prestiti a industriali, imprenditori ma soprattutto politici, tra cui lo stesso Giolitti. L’avvenimento, che macchiò irreversibilmente il governo italiano, non impedì, tuttavia, la riformazione di un governo giolittiano in seguito.

Nonostante quanto accaduto, Giolitti ottenne nuovamente il consenso popolare e la pratica del trasformismo, o meglio corruzione politica, continuò fino allo scoppio della Grande Guerra, sopravvivendo, sotto varie sfumature, anche negli anni successivi, fino al periodo attuale. Oggi il problema è ancora vivo: il trasformismo mostra entrambe le facce della medaglia. Da un lato non è più chiara la distinzione tra i partiti di Sinistra e i partiti di Destra a causa dell’intricato sistema che compone il nostro Parlamento, sempre più vicino alla promozione della maggioranza a seconda del problema da risolvere in un dato momento. Dall’altro gli scandali, che giungono non più come novità, non impediscono a una vasta cerchia di politici corrotti di esseri votati. Si pensi solo dopo quanti sforzi l’Italia è uscita-e non è ancora finita- dall’orgia politica berlusconiana, che ha agito indisturbata per anni.

Se Gramsci salvava il trasformismo in quanto responsabile della caduta delle utopie neoguelfe e federalistiche, c’è da chiedersi se uno Stato dove i cittadini eleggono come rappresentanti del governo parlamentari dalla dubbia fama, e in cui non esiste una concreta differenza ideologica da un partito all’altro, non sia anch’esso un’utopia (o forse una distopia).
Nonostante quello descritto da Orwell sia un totalitarismo, vi sono molti punti in comune col governo italiano. Nell’Oceania sottomessa al Grande Fratello i cittadini accettano tutto ciò che proviene dalle alte sfere del Partito senza la minima contestazione, proprio come in Italia abbiamo permesso a politici quali il Premier Berlusconi di trasformare il Paese in donna non di province, ma di bordello!

Concludendo, in tutto lo sconforto che 1984 getta addosso al lettore si può intravedere anche una scintilla di speranza nel messaggio che Orwell cerca di trasmettere attraverso il protagonista, Winston. Nel romanzo lui si ribella alla realtà priva di senso che il governo gli propone e cerca, compiendo sforzi oltre ogni limite, di ragionare con la propria mente, di produrre pensieri propri. Nonostante il finale drammatico, la volontà di Winston di non conformarsi all’ideologia di massa inculcata dal Partito e di lottare per evitare di essere inghiottito dal vortice utopistico è un riferimento importante che, nell’insieme delle piccole parti di cui si compone, potrebbe rischiarare la politica italiana attraverso le scelte giuste, che la scrollino dal peso della corruzione.

Elisa Camassi - Trasformismo: hobby o sport? no, politica.


Da Cavour a Brachetti


Arturo Brachetti è il più famoso trasformista al mondo con il record mondiale di cambiamenti d’abito in due ore, ma non è l’unico ad avere questo tipo di hobby: molti politici, nella storia italiana ed internazionale, hanno preso spunto da questo favoloso artista nel cambiamento di schieramento politico a seconda della convenienza.
La fine dell’800 è caratterizzata dal fallimento del bipolarismo italiano, e cioè dell’effettiva alternanza dei partiti al governo, per cui, a partire dal Connubio Cavour-Rattazzi, vengono emarginate le ali estremiste delle fazioni e, attraverso un sistema di favori e scambi, si alternano al governo i due schieramenti moderati della destra e della sinistra storica, eredi del liberalismo e rappresentanti della classe borghese. Di conseguenza, il popolo non considera le proposte più estremiste e non vi è una vera e propria opposizione politica, poiché al potere vi sono i rappresentanti di un'unica fascia sociale.
Da qui nascono i fenomeni del clientelarismo, cioè la costituzione di clientele a livello locale attraverso il rapporto diretto di interesse tra uomo politico ed elettorato, e del trasformismo, ossia l’oscillazione politica tra destra e sinistra per ottenere il massimo dei voti possibile, e dell’incapacità di fare dell’opposizione, descritta dal politico G. Pasquino.
Dal Connubio Cavour-Rattazzi, famoso accordo segreto tra i due oppositori per formare una nuova maggioranza, all’odierno Scilipoti, passando dai governi di Depretis e Giolitti, come dice forse esagerando G. Gramsci, tutta la vita statale italiana, dal 1848 in poi, è stata caratterizzata dal trasformismo.
Il Connubio, caratterizzato da un’alleanza trasversale, e non dei singoli politici come succederà più avanti, apre le porte all’era del trasformismo, che caratterizza inizialmente un periodo di staticità e di problematiche tra nord e sud italiano. Sale allora al governo, nel 1882, Agostino Depretis che, oltre alla riforma elettorale con l’allargamento del suffragio, alla riforma sull’istruzione, all’adozione del protezionismo con cui vengono avvantaggiati i latifondisti e gli industriali - approfondendo la divisione economica italiana - e al tentativo fallimentare di espansione coloniale, immobilizzerà lo scontro politico italiano tramite un’alleanza con Minghetti, accordandosi per unire le forze contro l’estrema sinistra.
Un altro esempio di siffatte consuetudini è la politica di Francesco Crispi che, dal 1887, prosegue la pratica trasformista dello schieramento di sinistra. Il suo governo, caratterizzato dalla francofobia e da una politica coloniale fallimentare, poiché superiore ai mezzi, è distinto da un’oscillazione continua tra anticlericalismo e riconciliazione tra Stato e Chiesa, tra liberalismo e duro imperialismo, tra giacobinismo ed ostilità alla Francia.
Giolitti, Presidente del Consiglio dal 1892, definito da Salvemini “ministro della malavita”, poiché sfruttatore del clientelarismo e del trasformismo, sale al potere negli anni dello scandalo della banca di Roma, che evidenza i legami tra la politica e il mondo della finanza. Tra fenomeni di corruzione e di non coinvolgimento della popolazione nella vita sociale e politica, il trasformismo diventa dunque un fenomeno sempre più negativo, che non verrà mai completamente annullato.
Tuttora notiamo tra i vari partiti italiani un movimento sospetto, che potrebbe sembrare l’”antico” trasformismo. È forse il caso dell’onorevole Scilipoti che, in circa due anni, dal partito di sinistra Italia dei Valori, è passato al Gruppo Misto per poi optare per lo schieramento politico opposto. Tra corruzione ed indagini ministeriali siamo sempre al punto di partenza, ma almeno abbiamo scoperto che il trasformismo non è solo la capacità teatrale di mutare le proprie sembianze in pochi attimi.

Massimo Amadori - Gli eroi del Risorgimento e Benigni

Riflessioni sul discorso di Roberto Benigni per il 150° dell'Unità nazionale italiana


http://www.youtube.com/watch?v=2peI2KExryM
Cavour: compie una riflessione sull'importanza della democrazia, e in particolare condanna ogni dittatura non tanto dal punto di vista morale, ma per il fatto che le dittature non portano la crescita di un paese (specialmente di un paese appena formatosi
 come l'Italia). Solo uno stato democratico, in cui i cittadini sono rappresentati in parlamento, conduce il paese alla crescita.
A mio avviso si tratta di un discorso di grande modernità per il suo tempo: nell''800 infatti in tutta Europa vi erano monarchie con un forte potere centralizzato.

Mazzini: riflette sull'importanza della nazione, che non è solamente l'insieme di uomini che vivono su un certo territorio, ma è costituita dagli uomini che si riconoscono in cultura e tradizioni comuni. La nazione assume perciò in Mazzini un valore quasi sacro. Egli afferma poi che in una nazione educazione, senso civico e lavoro devono essere i valori fondamentali. Occorre infatti educare il popolo all'idea di nazione; inoltre, il lavoro dei suoi uomini è ciò che rende grande una nazione: vanno quindi promosse le riforme sociali.
Penso che Mazzini, più di ogni altro eroe risorgimentale, abbia portato alla coesione nazionale, poiché questo
, oltre ad essere un messaggio politico, ha anche una valenza filosofico-morale. Infine, il suo non è un patriottismo ciecamente nazionalista, poiché ha come fine l'indipendenza di ogni popolo. 

Garibaldi: considerando il fatto che all'epoca in Europa vi erano continue guerre tra nazioni, Garibaldi afferma che il patriottismo non deve portare all'imperialismo, ovvero all'affermarsi di una nazione su un'altra, ma alla coesione tra i diversi popoli d'Europa. In questo modo, si avrà un mondo di pace e le risorse prima impiegate nella guerra dovranno essere utilizzate a fine sociale. Tale discorso pare quasi profetico, poiché è la base ideologica che portò alla formazione dell'Unione Europea (anche se i motivi, in realtà, sono stati più che altro di natura economica).

Giulia Bernardinello - Viaggio in Bosnia: la distruzione e la speranza


Per le classi quinte più fortunate, giunte quasi alla fine del loro lungo percorso di studio, è concessa una settimana d’istruzione rilassante: la gita scolastica. Questo viaggio deve essere un insieme di piacere e conoscenza, che unendosi in simbiosi, donano allo studente la ricetta perfetta del divertimento.
La Bosnia Erzegovina, la Slovenia e la Croazia hanno messo a nudo la loro storia, le loro sofferenze, le loro vergogne, le loro differenze e i loro molteplici pregi,  per far conoscere il cuore del loro passato a una straniera come me.
Venerdì 23 Marzo, piena di spirito e aspettative, è iniziato questo viaggio. Ho messo piede in più città in quei giorni, come Tuzla, Sarajevo, Mostar, Dubrovnick, ma quella che mi ha colpito di più è stata Srebrenica.

1993-1995. Quando sono nata e le bambole erano il mio passatempo, serbi e bosniaci hanno intrapreso una delle guerre più sanguinose al mondo, dove i bambini sono stati costretti a crescere tra le armi. Questa data è da imprimere saldamente dei nostri ricordi ed è mia intenzione sottolineare come siano pochissimi gli anni passati dalla fine di questo massacro. E’ per me inconcepibile come a distanza di qualche miglia di mare, esseri umani tutti uguali fra loro siano costretti a vivere vite così differenti.
L’11 luglio 1995 i serbi hanno assediato Srebrenica. Donne e bambini sono stati aiutati dai militari olandesi e rinchiusi nella cosiddetta ‘zona protetta’ dell’ONU, una fabbrica poco distante dalla città. Gli uomini, invece, hanno iniziato a scappare, cercando di raggiungere Tuzla. Durante quest’impresa la maggioranza di essi è morta e in pochissimi sono riusciti a tornare indietro dalle proprie famiglie. Solo nel 2010 gli esperti stimano 8372 morti, di cui solamente 6000 identificati.
Ho visitato il sacrario di Srebrenica: tutti quei nomi, tutte quelle vite e quei futuri mancati tolgono il fiato. Se hai la “fortuna” di leggerli, non puoi  concepire il perché della loro morte, ma puoi farti una vaga idea di ciò che è successo in quel territorio. Ascoltando le testimonianze dei superstiti, lo stomaco ti si chiude, i pensieri si annebbiano e la rabbia aumenta.
Avremo potuto fare qualcosa?
Potevamo aiutare e non lo abbiamo fatto?
Mogli che non sanno il destino dei loro mariti. Sono ancora vivi e le stanno cercando, o purtroppo uno dei tanti cadaveri irriconoscibili  nelle troppe fosse comuni è proprio il loro?
Figli smarriti che ricordano poco di ciò che è successo e non capiscono perché a loro è toccata un'infanzia diversa dagli altri, loro che non hanno avuto affatto un’infanzia. 
Sono entrata in quella fabbrica, enorme, scura, vuota, spoglia e maleodorante. Ho immaginato a scatti la moltitudine di persone che, tutte strette fra loro e disperate, si domandavano se mai la loro sofferenza avrebbe avuto una fine. I muri sono incisi e alcune foto sono appese. Brividi.
Mi è rimasta nel cuore e nella mente la frase del nostro autista croato: “Quando vieni a Sarajevo non chiedere come la gente muore, ma solo quando muore”.
Gli aiuti alla popolazione in tempo di guerra sono stati miseri e inutili. Gli Stati Uniti sganciarono due bombe ricche di uranio sulla città e sparirono. Ora quell’uranio impoverito avvelena le persone e i tumori sono il 90% delle cause di morte qui.
Dietro ad un paese ancora in ginocchio c’è però la voglia di risollevarsi.
I sorrisi delle persone e i loro occhi lucidi fanno scorgere la voglia di rinascere dalle macerie, di riparare le case ancora deturpate, su cui gli spari sono ancora evidentissimi.
Per compiere questo grande passo esistono associazioni come quella di Sarajevo, che opera su tutto il territorio con squadre speciali, per togliere i bambini dalla strada e dar loro il futuro che non avrebbero potuto avere senza un aiuto. Ho visitato il centro e conosciuto i ragazzi, purtroppo molto superficialmente. Camminando in quelle stanze saltano agli occhi colori, odori e scritture diverse; religioni che si uniscono, che si RISPETTANO, che si tollerano pacificamente. Questa caratteristica è nota non solo in questi centri, ma anche nel cuore della città.
Ci sono quattro chiese: una ortodossa, una mussulmana, una ebrea e una cattolica. Tutte coesistono senza problemi e senza screzi.
Sono giunta alla conclusione che questi luoghi, pur essendo deturpati esteriormente, abbiano un’anima molto più matura e pura della nostra. Pur essendo distrutta dalla guerra, qui la gente non si è fatta portare via la speranze, le usanze e le credenze. Sono molto colpita dalla loro forza di vivere.
Sono entusiasta da ciò che ho visto e sicuramente non lo scorderò mai, impossibile farlo.

Elisa Camassi - Viaggio in Bosnia: le scoperte, le emozioni


VIAGGIO D’ISTRUZIONE, BOSNIA 1992-1995
FRAMMENTI DI MEMORIE

Partiti con valige piene di cibo e voglia di divertirci, abbiamo scoperto un mondo prima totalmente sconosciuto e sconvolgente.

Sarajevo: l’arrivo notturno a Sarajevo ci ha improvvisamente svegliati dal nostro torpore. Una montagna di luci nell’oscurità della notte ci ha fatto intravedere, solo per qualche istante, la desolazione della città, i palazzi distrutti e i fori nelle pareti causati, qualche anno prima, da proiettili e da frammenti di mine.

Fabio, la nostra guida, o come dice lui scherzosamente “il nostro guido”, aveva 10 anni durante la guerra. Dice che ha visto tanti morti, tanta distruzione e paura. Oggi ha circa trent’anni, è un uomo diverso, un uomo che sa, un uomo che, come dice lui stesso, ha capito il senso della vita.
Ci racconta la guerra, come l’hanno vissuta lui e i suoi concittadini, con occhi che brillano del ricordo ancora vivo, e sfiorano i nostri visi, come per ammonirci. Sorride poi quando dice che le donne hanno salvato Sarajevo con il contributo che hanno dato agli uomini, e ne è orgoglioso.
Anche sul volto del Generale bosniaco si nota una certa fierezza e allo stesso tempo un senso di sconforto e di disgusto per questa guerra inutile. Guarda ai suoi piedi e poi improvvisamente su, verso la distesa di esili lapidi bianche che spuntano tra le case e i giardini. Si ferma un’attimo per ammirare quello spettacolo agghiacciante che si nota dall’alto di Sarajevo: immense indistinte macchie bianche: sono lapidi, sono dappertutto.

Srebrenica: a Srebrenica, la città dell’argento, ci troviamo davanti al genocidio di circa 8000 persone, deportazioni, torture, madri che piangono l’ultimo ricordo che hanno dei loro figli: la separazione forzata che non sono riuscite ad impedire. Ricordano i loro visi, il loro nomi e le loro ultime lacrime. Poi ancora, foto spettacolari che raccontano l’orrore della morte più cruda.
In bianco e nero gli occhi di una donna mi hanno trafitta.

Tuzla: A Tuzla si respira speranza: la “casa pappagallo” ha risposto a molte nostre domande. Colori, sorrisi, sguardi, baci sfuggenti e una partita di calcio, come simbolo di unione tra i ragazzi di due paesi così differenti, ma vicini, come la Bosnia e l’Italia. Sono solo undici i volontari in tutta la Bosnia, ammettono i tre ragazzi che ora stanno lavorando con i bambini accolti nel centro (circa 150). Ce ne vorrebbero di più, c’è tanto lavoro da fare, troppe persone da aiutare.

Edward, l’autista del pullman, a 21 anni ha girato il mondo con i suoi sei amici. Ha imparato tante lingue e come si vive in altri paesi. Oggi, dice, è rimasto solo lui; a Tuzla, la sua città natale, non si chiede come uno è morto, ma dove: hanno lanciato bombe ad uranio impoverito che hanno straziato questa gente.

Mostar: Mostar è una cittadina turistica non lontano da Sarajevo, famosa per l’immenso ponte che sovrasta il fiume Neretva, una delle acque più limpide che abbia mai visto.
Qui mi chiedo come è possibile che in un posto così bello, infossato tra due montagne e costruito tra la roccia, sia accaduta una cosa simile. Lo Stari Most è stato abbattuto il 9 novembre ‘93 dal fuoco croato, una ferita alla comunità irrimediabile. Il ponte, oggi ricostruito, voleva essere un simbolo d’unione tra le varie culture e religioni, ma oggi questa sua anima è perduta: oggi l’unione è solo apparente. A Mostar i bambini studiano in scuole diverse e con testi diversi a seconda delle credenze religiose della famiglia e si pensa a una divisione della città anche dal punto di vista politico. È uno dei paesi più incredibili che abbiamo visitato in questa settimana, ma, ancora una volta, la tragedia qui avvenuta contrasta con la bellezza eterea dei luoghi.

Non ne sapevo niente. Siamo partiti per conoscere, capire e crescere, e così è stato, almeno per me.
Ma, come sempre, tutto ci scivola addosso, e domani ce ne saremo già dimenticati e ci arovelleremo su cosa indossare il giorno seguente.