mercoledì 6 giugno 2012

ELISA CAMASSI - UN MIKROKOSMOS UNITO. La cultura della diversità e dell’integrazione attraverso il canto



UN MIKROKOSMOS UNITO
La cultura della diversità e dell’integrazione attraverso il canto

Il Centro interculturale M. Zonarelli, del quartiere San Donato di Bologna, realizza da anni una serie di iniziative per favorire l'incontro, lo scambio e il dialogo interculturale. Attraverso vari servizi e progetti come incontri socio-culturali, corsi, laboratori, cineforum e altre varie manifestazioni, raggruppando circa 80 associazioni delle comunità starniere bolognesi, il centro si adopera per formare a una vita di comunità ed a una parteciapazione alla vita sociale trattando i temi della diversità e della multiculturalità.
Fanno parte del progetto del Centro Zonarelli sia il coro multietnico Mikrokosmos, che nasce su iniziativa del maestro Michele Napolitano con l’obiettivo, attraverso un repertorio di musica popolare da tutto il mondo, di promuovere l’integrazione dei cittadini stranieri e contribuire ai processi d’interazione e comunicazione tra persone di culture differenti, sia il coro Mikrokosmos dei piccoli che, con lo stesso intento, raggruppa bambini dai sei agli undici anni.
Come questa associazione, molte altre si sono formate per combattere l’odio e la paura per lo straniero che ancora oggi è radicato nella nostra società e che è descritto in modo formidabile da autori come Elsa Morante e Fredrick Brown.
La domanda a cui dobbiamo riflettere è: com’è possibile che nel XXI secolo, dopo decine di romanzi sull’argomento, poemi epici come l’“Odissea” di Omero, articoli della Costituzione italiana, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e molti orribili avvenimenti storici, l’omofobia e la xenofobia siano ancora presenti nella nostra società?
La forma d’arte del canto, che raggruppa persone diversissime ma con una passione comune, è una soluzione “che canta a gran voce” il problema della scarsa educazione alla diversità e all’integrazione.
In questa chiave, rileggiamo l’ancor oggi attualissima riflessione di Nausicaa, figlia di Alcinoo e personaggio dell’”Odissea”, il capolavoro dello “sconosciuto” e “misterioso” Omero: “Straniero, non sembri uomo stolto o malvagio, ma Zeus Olimpio, che divide la fortuna tra gli uomini, buoni e cattivi, a ciascuno come lui vuole, a te diede questa sorte, e tu la devi ad ogni modo sopportare. [...] Dove fuggite al veder un uomo? Pensate forse che sia un nemico?”.
La domanda continua in fondo ad essere la stessa: pensate che lo straniero sia necessariamente un nemico?
Ogni giorno possiamo assistere ad episodi di discriminazione, anche indiretta, in qualsiasi contesto: dai cori da stadio, alla televisione, passando per la scuola, dove l’educazione alla convivenza civile non sembra ancora affermata. L'ultimo di alcuni episodi vergognosi a cui ho assistito personalmente è avvenuto qualche settimana fa, quando il direttore del coro Mikrokosmos si è sentito chiedere in tono canzonatorio dal presentatore di un un concorso corale sull’unità d’italia, a cui partecipava l’ensamble, se era veramente un coro multietnico quello che aveva davanti, dato che non vedeva molti neri.
Probabilmente è solo ignoranza quella che troviamo nelle parole del presentatore, o forse la cosidetta “gioia di umiliare” che descrive Buzzati nella sua raccolta di racconti. È possibile sentirsi giustificati a diffamare persone solo perché credute diverse da noi? Non siamo noi stessi stranieri di molti altri?
Il coro interculturale bolognese, e l’intero centro Zonarelli, lotta e continuerà  di certo a lottare per questi ideali.
Il maestro Michele Napolitano ha risposto al presentatore: Non tutti gli stranieri sono neri, non tutti i neri sono stranieri. Forse il conduttore del concorso avrà imparato la lezione dopo questa risposta, ma ora è la mentalità corrente che deve cambiare e, finalmente, aprirsi.

C. LORENZINI, S. REGAZZI - La colonizzazione dell'Africa


Il colonialismo in Africa

  
colonialismo = conquista militare o diplomatica dell'Africa da parte delle nazioni europee piu' influenti
        (Francia, Inghilterra, Germania, Portogallo, Belgio, Spagna, Italia)

Periodo: XV secolo - XX secolo, con apice nel 1800, all'epoca degli imperi coloniali

Spartizione:

est e sud est ---> inghilterra
centro ---> germania e belgio
sud ---> francia e olanda

Cause e sviluppi


- colonialismo commerciale ---> 1500-1800, basi sulle coste per le rotte marittime verso le americhe e l'asia
smistamento e raccoglimento delle merci,
mercato di schiavi da parte dei negrieri
(in accordo con le tribu' dell'interno, fino all'abolizione della schiavitu' nel 1800)

- colonialismo moderno ---> sfruttamento vero e proprio delle risorse africane per controllare le fonti di risorse prime e possedere le basi commerciali
oppure per gestire una emigrazione fruttuosa dalla madrepatria verso l'estero (es: Italia)

- II meta' dell''800 --- > corsa alle colonie, occupazione di vasti territori nell'entroterra
conquista militare o acquisto e trattative con sovrani locali
africa come 'res nullius' (cosa di nessuno) --- > conquista da subito ufficiale
invio di popolazione bianca per mantenere saldo il potere (bianchi come classe dirigente)
profitto economico per la madrepatria superiore alle spese di conquista e mantenimento del potere


Motivazioni ideali

- fondate sulle teorie di Darwin e Spencer (positivismo evoluzionistico):
 (teoria della selezione naturale: sopravvive il piu' forte, per cui una certa razza sopravvive a spese di un'altra)
 (l'uomo bianco si e' sviluppato in un ambiente con piu' stimoli a livello cerebrale ---> uomo bianco con societa' piu' civilizzata e avanzata ---> missione civilizzatrice dell'uomo bianco sulle altre razze inferiori)


Aspetti positivi per le colonie

- grandi aree con lingua e cultura comune, sebbene importata (rispetto alla precedente frammentazione culturale e linguistica)
- impianto di infrastrutture (soprattutto ferrovie), miglioramento dei trasporti
- fondazione di grandi citta'
- possibilita' di ascesa sociale al servizio dei bianchi, seppure riservata solo alle élites locali

  

Conseguenze negative della colonizzazione

1) La colonizzazione ebbe delle conseguenze negative sicuramente maggiori rispetto alle positive. I Paesi europei cercarono di attuare un'occidentalizzazione di tutti i popoli presenti sul territorio africano, imponendo nuove forme di organizzazione sociale, culturale e religiosa a cui le tribù erano estranee.
2) Un altro problema che si venne a creare fu quello della divisione dei territori: l'Africa fu infatti divisa in base ad accordi stipulati tra le grandi potenze europee, le quali non tennero conto degli interessi della popolazione locale. La conseguenza di queste divisioni fu che in molti stati si trovarono a convivere persone di lingua e cultura diversa, che spesso neanche si capivano fra loro.
3) I coloni smantellarono il sistema economico africano (che era di tipo socialista e quindi basato sulla condivisione) sostituendolo con un sistema pre-capitalista che giovava agli interessi delle industrie straniere.
4) la colpa più grave dei colonizzatori fu di non industrializzare l'Africa. Questo continente è il più ricco al mondo per materie prime, però non possiede i mezzi e le industrie adeguate per lavorarle, quindi queste devono essere importate e trattate dalle industrie occidentali. Per questo motivo, quando il prodotto finito torna in Africa viene a costare il doppio.

Cosa facilitò la colonizzazione dell'Africa?

A facilitare la colonizzazione dell'Africa fu la divisione tribale. Il continente africano non era diviso in grandi stati, ma in piccole tribù che parlavano lingue diverse e che spesso erano in rivalità tra loro. Questo odio tra tribù impedì ai popoli dell'Africa di unirsi per combattere il nemico comune. Inoltre, capitava spesso che gli europei alimentassero gli scontri tra tribù, armandole affinché combattessero fra loro.

La colonizzazione da parte dei diversi Paesi europei

Gran Bretagna
L'Inghilterra era presente in Egitto e in Sudan fin dal 1882 e puntava a controllare il Nilo e il Lago Vittoria. Nel 1898, quando la Francia occupò il villaggio sudanese di Fashoda, le truppe delle due potenze europee arrivarono quasi allo scontro, ma la situazione venne risolta con un accordo politico che permise all'Inghilterra di preservare il Sudan. L'Inghilterra fu coinvolta anche nella guerra anglo-boera, che scoppiò nella regione dell'Orange tra il 1899 e il 1902.

Francia 
durante il II impero coloniale:
- 1830 invasione dell'Algeria, conquistata nel 1847

durante la III repubblica:
1881 protettorato in Tunisia
1890 conquista di Mauritania, Senegal, Guinea, Mali, Costa d'Avorio, Benin, Niger, Ciad, Congo, Gibuti
creazione di un asse di conquista est-ovest, contrapposto a quello nord-sud britannico

dopo la fine della I guerra mondiale:
controllo di Libano e Siria
imposizione della cultura e lingua francese; concessione ai popoli assoggettati della cittadinanza francese, seppur di minor valore

Belgio
Sotto il dominio di Leopoldo I, il Belgio esplorò il Congo. Alla Conferenza di Berlino del 1884, questo stato fu dichiarato "stato libero" e fu sottoposto al controllo personale di Leopoldo I, che ne sfruttò le ricchezze minerarie e la produzione di gomma.

Olanda
A metà del '600 gli Olandesi fondarono la Colonia del Capo, nel Capo di Buona Speranza. Questa divenne presto una colonia di popolamento, nella quale si trasferirono olandesi e francesi protestanti. Gli abitanti di questa colonia erano chiamati Boeri, dalla parola "Boer" che in olandese significa "contadino". La comunità si dedicava alla coltivazione e all'allevamento e sviluppò una nuova lingua derivante dall'Olandese.

Portogallo
Angola e Mozambico

AMADORI M., LANZA L., SHAQIRI M., ROSSI G., ZUCCONI F. - Il colonialismo italiano in Africa


Questioni principali: 

·         Acquisto della baia di Assab (Eritrea): nel 1869 la compagnia di navigazione Rubattino acquista il territorio per conto del regno d’Italia. La baia viene acquistata in seguito dal Governo italiano (sotto la guida del primo ministro Depretis) nel 1882.

·         Schiaffo di Tunisi: l’Italia aspirava a conquistare la città di Tunisi e ciò costituiva un primo passo verso il colonialismo africano. Tuttavia il Governo italiano si lascia sorprendere nel maggio 1881 quando i francesi occupano la città rendendola un loro protettorato.

·         Guerra d'Eritrea: nel 1885 viene occupato il porto di Massaua e la città di Asmara. Per questo motivo l’Etiopia, che controllava l’Eritrea, reagisce attaccando l’Italia. L’esercito italiano riporta due clamorose sconfitte nelle battaglie di Adua e Amba Alagi (1896). La guerra si conclude con la stipulazione del Trattato di Uccialli (1889) che sancisce l’appartenenza dell’Eritrea al regno d’Italia.

·         Conquista della Somalia e della Libia: dopo la Conferenza di Berlino (1884), la Somalia viene spartita nel seguente modo: l’Italia occupa la parte meridionale, il Regno Unito la parte centrale e la Francia la parte settentrionale. Per quanto riguarda la Libia il primo ministro Giolitti, dopo una serie di accordi con il Regno Unito e la Francia, dichiara guerra all’impero ottomano nel 1911 occupando i territori della Cirenaica e della Tripolitania.

·         Colonialismo durante il Fascismo: la politica coloniale italiana ha il suo culmine durante il ventennio fascista: viene consolidata la presenza italiana in Libia e completata la conquista della Somalia. Si stipula un patto d’amicizia tra Italia ed Etiopia.

·         Guerra d'Etiopia: nel 1935 scoppia la guerra a causa di un incidente verificatosi presso una frontiera somala appartenente al dominio italiano. Mussolini giustifica la guerra dicendo di voler vendicare la sconfitta di Adua, subita dall’Italia alla fine del secolo precedente. Il conflitto si conclude nel 1936 con la proclamazione dell’Impero italiano d’Etiopia.

·         Ragioni sociali del colonialismo italiano: le motivazioni principali del colonialismo italiano non furono economiche ma sociopolitiche. Infatti soprattutto nel meridione, verso la fine dell'Ottocento, c'era un notevole eccesso di manodopera che era possibile impiegare nell'emigrazione coloniale. Ciò avrebbe risolto numerosi problemi sociali soprattutto per quanto riguardava la questione meridionale. Per questo motivo l'imperialismo italiano era appoggiato da Crispi e dai meridionalisti liberali. Pertanto, lo storico Giampiero Carocci ritiene più appropriato parlare di socialimperialismo italiano.

·         Immigrazione italiana verso l'Africa: tra il 1876 e la prima guerra mondiale, milioni di italiani emigrarono all'estero per sfuggire alla povertà. Tra questi parecchie migliaia ebbero come meta l'Africa. L'immigrazione verso l'Africa non fu rivolta solo verso le colonie italiane, ma anche verso altri paesi del Maghreb ed in Tunisia.

Cronologia


1869                Trattato del primo ministro Menabrea per l'acquisto della baia di Assab (Eritrea);

                        Acquisto della baia di Assab da parte della società di navigazione Rubattino;

1881                Schiaffo di Tunisi (la città diventa un protettorato francese);

1882                Il Governo italiano acquista la baia di Assab dalla società Rubattino;

1885                Inizio guerra d'Eritrea;

1889                Accordo di pace: trattato di Uccialli (l'Eritrea diventa un protettorato italiano);

1890                L'Eritrea diventa ufficialmente colonia italiana;

1892                Nasce la Somalia italiana;

1911                Inizio guerra libica;

1912                Vittoria italiana: annessione della Libia all'Italia;

1928                Patto d'amicizia tra Italia ed Etiopia;

1934                Incidente in un presidio italiano presso la frontiera somala (casus belli);

1935                Inizio guerra d'Etiopia;

1936                Vittoria italiana: annessione dell'Etiopia all'Italia.


martedì 5 giugno 2012

ELENA BENINCASA - Africa: colonizzazione e decolonizzazione

Rivista: "Il venerdì di Repubblica"
 Sezione: Fatti dal mondo


Cause e conseguenza del secolare intervento occidentale nel continente africano. Forse sarebbe stato meglio lasciare che l’Africa si sviluppasse da sé. 


· Storia e geografia del continente


L’Africa è entrata in rapporto con le grandi potenze europee a partire dall’età moderna, dal Quattrocento in poi. Gli interessi delle nazioni occidentali vertevano sulle coste in quanto costituivano un importante punto di raccordo tra continente europeo e americano sotto il profilo economico. L’interesse per l’esplorazione interna dell’Africa si diffuse solamente a partire dall’Ottocento, e in breve tempo determinò il rapido sviluppo di un tipo di commercio che esisteva dal XVI secolo: la tratta degli schiavi. All’interno di questo sistema commerciale i potentati africani della costa vendevano agli Europei gli schiavi prelevati dall’interno, e venivano, in ultimo, spediti nelle Americhe. Di conseguenza, per secoli gli stessi Africani resero schiavi i propri connazionali dando vita ad un fiorente mercato che pose le basi per i numerosi rapporti che, a partire dall’Ottocento, si svilupperanno con i Paesi europei.
Nell’ambito del colonialismo la Francia fu la prima nazione ad avviare, nel 1830, una politica africana sempre più decisa. Inizialmente occupò l’Algeria sotto Carlo X, con l’intento di distrarre la popolazione dalla precaria situazione di politica interna; successivamente, nel 1881 essa estese la propria presenza militare alla Tunisia, dove però incontrò l’opposizione dell’Italia. A questa prima penetrazione francese seguirono il Belgio, che fece del Congo uno Stato libero ma sotto il diretto controllo del re Leopoldo II; il Portogallo, che si insediò lungo le coste, in Angola e in Mozambico; l’Italia, che cercando di condurre una politica coloniale in Libia diede origine a una serie di violenti scontri; l’Olanda, che fondò la cosiddetta Colonia del Capo, che divenne una colonia di popolamento non solo per gli Olandesi ma anche per i Boeri (Francesi protestanti).
Il risultato complessivo del colonialismo africano fu la spartizione del continente nell’arco di pochi decenni, e alla fine del XIX secolo buona parte dell’Africa si trovò occupata da potenze occidentali che organizzarono l’economia, la società e la stessa suddivisione del territorio basandosi sui propri interessi, senza tener conto delle numerose etnie che da sempre popolavano il continente. Questo elemento fu di centrale importanza per una serie di cambiamenti che si verificarono durante la decolonizzazione Novecentesca. Essa ebbe inizio tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso sotto la forte pressione delle élite africane che puntavano all’indipendenza. La scelta per i Paesi Occidentali si divideva tra l’opposizione militare alla richiesta e il consenso seguito da un forte monitoraggio della transizione. Alla fine la maggior parte degli Stati africani ottenne l’indipendenza nel 1960, l’anno dell’Africa, ma il processo poté dirsi completato alla metà degli anni Settanta.
I confini di molti Stati nascenti consistevano in semplici linee rette, come si può notare osservando la mappa dell’Africa al giorno d’oggi, frutto di scelte arbitrarie. Il divario che si creò tra il disegno dei confini e le sottostanti realtà sociali era profondo, nonostante i governanti africani si impegnassero per mantenere lo status quo


· Economia e società

In seguito alla decolonizzazione l’Africa si trovò di fronte a due realtà differenti: da un lato si dimostrava profondamente influenzata dalla recente azione coloniale; dall’altro ereditava una storia secolare di culti e tradizioni di antiche etnie e tribù. Le operazioni di divisione del territorio sulla base di accordi tra le grandi potenze occidentali sradicarono le tradizioni culturali locali, dando vita a Stati in cui esse si mescolavano.
Sotto il profilo sociale, ciò creò attriti tra le tribù costrette a convivere, e in molti casi si giunse a scontri violenti. Un evento disastroso, ricordato oggi come il più drammatico della storia africana, è la guerra civile ruandese dell’aprile-luglio 1994. Dopo la conquista dell’indipendenza, il Ruanda fu teatro di massacri sanguinosi che causarono la morte di centinaia di migliaia di persone e circa due milioni di rifugiati. Il fulcro degli scontri fu il genocidio di una delle due etnie che dalla colonizzazione abitavano il Ruanda: la popolazione dominante degli Hutu operò una vera pulizia etnica sterminando quasi completamente la tribù dei Tutsi. In questo scenario di morte e violenza le potenze europee ebbero un loro ruolo: la Francia rifornì di armi i ribelli Hutu, e gli altri Paesi non intervennero per placare il genocidio, aspettando che se ne occupasse l’ONU.
L’altro tragico caso che macchia di sangue la storia del continente è l’apartheid sudafricana. Nel 1931 l’Inghilterra riconobbe al Sudafrica l’indipendenza, ma la politica interna rimase marcatamente razzista. Dal tempo della colonizzazione ottocentesca l’area era diventata una colonia di popolamento per molte etnie occidentali e non, e con il passare del tempo le tensioni tra le varie popolazioni si inasprirono. Le istituzioni liberal-democratiche nate con l’indipendenza riconoscevano i diritti civili solo ai bianchi, mentre numerose leggi discriminavano il resto della popolazione (sia asiatica sia africana). Stava nascendo la politica dell’apartheid, presto adottata anche dalla Rhodesia. La segregazione razziale fu, però, osteggiata da un movimento africano d’opposizione, l’African National Congress. Esso cominciò ad essere sentito e vissuto dalla massa quando ne divenne leader Nelson Mandela, che sul finire del Novecento pose le basi per l’abolizione della legislazione dell’apartheid, dopo un decennio di sanguinose repressioni.
In termini generali, nella maggior parte dei Paesi le potenze coloniali cercarono di introdurre istituzioni politiche di tipo occidentale, ma spesso esse cedettero il posto alle élite dirigenti militari che salirono al potere con colpi di Stato. La situazione stessa di molti nuovi Paesi permise che ciò si verificasse: il quadro complessivo era di corruzione dilagante (favorita dagli interessi occidentali), instabilità politica e violenza.
Dal punto di vista economico durante il periodo coloniale i Paesi occidentali avevano creato in Africa un sistema che mirava a fare del continente una fonte di materie prime utili all’industria europea. La logica di sfruttamento che stava alla base di questo metodo aveva favorito la sostituzione delle colture per la sussistenza con quelle richieste dai mercati occidentali. Di conseguenza, anche durante il periodo di decolonizzazione l’economia dei Paesi che avevano ottenuto l’indipendenza non era indirizzata verso il loro sviluppo. Molti contadini cominciarono a ridurre la produzione agricola per il consumo domestico, privilegiando i cosiddetti cash crops, prodotti quali caffè, tè, cotone, commerciabili sui mercati internazionali. Questa propensione verso il commercio di sola esportazione sottomise le masse contadine all’andamento internazionale dei prezzi del mercato, senza che potessero far fronte agli eventuali crolli della domanda.
Una recente questione, sorta per la prima volta nella seconda metà del XX secolo, che affetta tanto la società quanto l’economia africana, è la rapida trasformazione del continente nel cosiddetto terzo mondo. Dopo il 1960 si assistette a quella che fu metaforicamente definita una pioggia di indipendenze, che comportò la liberazione dai Paesi coloniali di circa cinquanta Stati africani.
Il fatto importante che concerne questo fenomeno non è tanto il numero dei nuovi Paesi, quanto l’enorme pressione demografica che essi esercitarono. L’aumento demografico divenne comune ai tempi della prima rivoluzione industriale, e tuttora prosegue incessantemente. In seguito a numerosi studi sulle popolazioni delle diverse nazioni si è stabilito che esso risulta sostenibile nei Paesi sviluppati (popolazioni europee o di origine europea), mentre solleva molti problemi in quelli sottosviluppati (soprattutto le ex colonie). Analizzando il caso dell’Africa, la crescita demografica causò appunto l’insorgere di gravi questioni economiche, in quanto il 60% della popolazione verso la metà del Novecento aveva meno di 15 anni. Inoltre, con il diffondersi delle innovazioni farmaceutiche, i tassi di natalità aumentarono, mentre furono crollato quelli di mortalità. L’esplosione demografica non fu, però, seguita da un mutamento di tipo economico-istituzionale. Ciò determinò l’irrimediabile inspessirsi del divario che oggi separa Paesi ricchi e Paesi poveri. 


· Considerazioni


Avendo avuto sin dall’inizio dell’età moderna rapporti squilibrati con i Paesi occidentali, l’Africa ha sempre incontrato numerosi ostacoli che hanno reso il suo sviluppo estremamente lento. Quando, nel Quattrocento, cominciò a trattare con le grandi potenze mercantili, il rapporto che si istaurò la vedeva costantemente sottomessa allo sfruttamento delle altre nazioni. L’Africa non fu mai realmente in grado di controllare le interazioni con l’estero e visse, in questo modo, una condizione di perpetua passività. I veri cambiamenti si verificarono con l’inizio della stagione coloniale ottocentesca. Il colonialismo riorganizzò il continente sotto ogni profilo: la nuova divisione territoriale determinò lo sradicarsi di tradizioni e culture, e fomentò l’ostilità tra le tribù africane; l’economia fu modificata secondo gli interessi industriali occidentali; e lo stesso sistema politico si andò via via occidentalizzando. Questo insieme di fattori impedì alle popolazioni africane di decidere da sé le sorti del Paese:, di conseguenza, anche durante la decolonizzazione l’indipendenza non comportò la nascita di sistemi politici autonomi, perché, ormai, lo stile di vita occidentale era stato assimilato.
Gli aspetti positivi dell’intervento occidentale in Africa, come per esempio l’esportazione di un sistema educativo moderno e la costruzione di nuove città, furono perciòeclissati da un lungo elenco di problemi che hanno avuto inizio con lo sbarco dei primi colonizzatori. Col trascorrere del tempo questioni quali lo sfruttamento, le malattie, la povertà si sono ingigantite, fino a divenire, oggi, una situazione dal difficile rimedio. Il percorso da intraprendere per affrancare l’Africa dalla categoria dei Paesi sottosviluppati è lungo ma non impossibile.
Bisogna, però, interrogarsi su quale sarebbe stata l’attuale condizione africana se essa fosse rimasta inalterata, ovvero se nessuna grande nazione avesse deciso di farne un territorio ad uso personale andando a rompere un equilibrio interno secolare. Essendo un continente così ricco di materie prime e così vasto, probabilmente, sarebbe diventata una rivale degna di concorrere con le potenze già consolidate per la grande scalata economica. 

Virginia Marangon



LUCA LANZA - AFRICA: COLONIZZAZIONE E DECOLONIZZAZIONE


L’attuale carta geografica politica dell’Africa è frutto del processo di decolonizzazione che si è verificato in particolare dopo la II Guerra Mondiale. Con il termine decolonizzazione si indica il processo di dissoluzione dell’organizzazione coloniale che alcuni stati europei avevano imposto a quasi tutta l’Africa e in parte dell’Asia e dell’America del sud. Ciò ha comportato per alcuni stati ex-coloniali da una parte il raggiungimento dell’indipendenza politica, e in secondo luogo l’emancipazione dalle intrusioni economiche degli stati ex-colonizzatori. La decolonizzazione in Africa è avvenuta in maniere differenti: alcuni stati come l’Italia e la Spagna persero completamente i loro domini coloniali, mentre altri, come la Gran Bretagna, attuarono una politica di concessioni di indipendenza per salvaguardare i rapporti privilegiati con le ex-colonie, evitando così il coinvolgimento in costose guerre coloniali. Tra gli anni ’50 e ’60 all’Africa centro-australe venne concessa l’indipendenza.
La Francia invece attuò una politica diversa, poiché, non rassegnandosi alla perdita delle colonie, rimase coinvolta nella guerra d’Algeria, la cui perdita nel 1962 ebbe gravi contraccolpi anche sulla stabilità politica interna francese.
Anche il Belgio in Congo e il Portogallo in Africa meridionale si opposero duramente ai movimenti di liberazione delle diverse colonie. In particolare, il Portogallo concesse l’indipendenza ai suoi possedimenti africani (Angola, Mozambico, Guinea-Guissau, Capo Verde, Sao Tomè e Prìnzipe) soltanto al definitivo crollo del regime creato da Salazar a Lisbona.
Con ciò possiamo dire che l’Africa contemporanea sia il risultato da una parte di accordi tra le grandi potenze europee, stabiliti tra il periodo coloniale e quello della decolonizzazione, accordi che non hanno tenuto conto delle culture locali e degli interessi delle popolazioni; d’altra parte l’Africa attuale è la conseguenza della sua storia secolare, dove i popoli, le tribù e le diverse etnie hanno un peso rilevante. Esempio lampante di questo concetto è la guerra civile ruandese che ha visto opporsi le due etnie degli Hutu e dei Tutsi, senza che si verificasse un intervento internazionale, se non a conflitto concluso.
Le conseguenze del processo di decolonizzazione, nel complesso negative, hanno dei tratti comuni: le élite di dirigenti locali che gestirono l’andamento della decolonizzazione attraverso o le armi o le trattative diplomatiche erano molto ristrette e occidentalizzate; mancava una classe media per funzioni e reddito e la maggior parte della popolazione era soggetta a forme di vita e di produzione arretrate, in rapido dissolvimento ormai da anni per l’impatto con il progresso portato dai colonizzatori; i livelli di reddito e d’ istruzione erano molto bassi e la dimensione dei capitali disponibili per lo sviluppo limitata, a fronte di una massiccia presenza di materie prime di notevole valore.
Inizialmente, la maggior parte delle potenze coloniali tentarono di introdurre istituzioni politiche di carattere occidentale, che però a causa delle condizioni che abbiamo già detto vennero soppiantate da élite di dirigenti militari, salite al governo in seguito a colpi di stato, o di élite politiche che si esprimevano in partiti unici di varia ispirazione politica. Inoltre si verificarono una diffusione dilagante della corruzione, favorita anche dalla persistenza degli interessi occidentali in un’ottica neocoloniale, instabilità politica e violenza, alimentata tra l'altro dai trafficanti internazionali di armi.
Dal momento che la decolonizzazione ha avuto luogo nel periodo della guerra fredda, alcuni dei nuovi stati si sono avvicinati al blocco comunista, diventando un significativo ago della bilancia nel conflitto tra USA e URSS. In questo ambito vanno ricondotte molte delle guerre, spesso a sfondo tribale o scoppiate come conseguenza del potere dei “signori della guerra”.
Infine, tutto ciò ha contribuito ad uno scarso decollo economico a causa di un rapido aumento della popolazione dovuto al miglioramento della vita e delle condizioni igieniche, benché negli ultimi anni i paesi africani siano duramente colpiti dall’AIDS.

lunedì 4 giugno 2012

Battigelli A., Guerra C., Quadri A., Tabellini R. - La decolonizzazione dell'Africa


DECOLONIZZAZIONE

CHE COSA E’ LA DECOLONIZZAZIONE?

Con il termine decolonizzazione si intende il processo di emancipazione e liberalizzazione nazionale dei popoli oppressi dalla dominazione coloniale di alcuni paesi, soprattutto europei (Gran Bretagna, Francia, Portogallo, Spagna, Paesi Bassi, Belgio).
Nella seconda metà del Novecento le colonie hanno ritrovato l’indipendenza. Il processo è avvenuto a volte pacificamente, a volte con violenza. La raggiunta indipendenza non ha però risolto i problemi delle ex colonie: nella maggior parte dei casi esse sono preda della violenza, delle guerre civili e della miseria.

DECOLONIZZAZIONE DELL'AFRICA DEL NORD E CENTRALE

Sono due i tipi di decolonizzazione:

Il primo è quello pacifico:
alla Francia e all’Inghilterra questa modalità diede notevoli vantaggi sul piano economico e politico sotto forma di rapporti privilegiati.
·       -  Marocco e Tunisia nel 1956
·       - Quasi tutte le colonie francesi fatta eccezione per l’Algeria
·      -  Quasi tutte le colonie inglesi fatta eccezione per il Kenia

Il secondo è quello sanguinoso:
  • ·      Zaire (colonia belga), Mozambico e Angola (colonie portoghesi), liberatesi solo nel 1975
  •  
  • ·      Algeria: guerra durata otto anni dal 1954 al 1962, con intervento del generale De Gaulle
    • Motivazioni: in Algeria la questione fu complicata dal fatto che erano numerosi i francesi che da tempo vi risiedevano e si opponevano alla decolonizzazione

  •  ·       Kenia: la guerra si è conclusa nel 1963
    • Motivazioni: anche in Kenia la presenza di moltissimi abitanti bianchi portò a scontri violenti e sanguinosi.


MOTIVI DELLE DIFFICOLTA’ NEL RAGGIUNGIMENTO DELL’INDIPENDENZA

  • ·    I paesi africani mancavano spesso di una vera e propria classe dirigente autoctona e di un’amministrazione pubblica organizzata.
  • ·       Le rivalità etniche e tribali perduranti da secoli.
  • ·       Gravi problemi economici dovuti all’arretratezza e allo sfruttamento cui erano stati sottoposti da parte delle nazioni occidentali anche dopo il raggiungimento dell’indipendenza.
  • ·       Mancando una vera e propria classe dirigente, spesso l’unico potere forte nei paesi africani rimaneva l’esercito, in mano a bande di prepotenti, rozzi e violenti, appoggiati a volte dai sovietici, a volte dagli americani, a volte dai gruppi industriali.
  • ·       Da ciò, centinaia di guerre dimenticate sanguinose e terribili per le morti dovute non solo alle ferite, ma anche a tristi effetti collaterali come la fame, le malattie e la miseria,. Tutto questo ha aumentato l’instabilità del continente, la sua spaventosa povertà, la mortalità infantile.


DECOLONIZZAZIONE AFRICA DEL SUD

Nell’Africa meridionale le classi dirigenti bianche mantennero saldamente il potere, esercitando una vera e propria oppressione razziale sulle popolazioni indigene:
  • ·       L’apartheid sudafricano, ovvero un razzismo legalizzato, in base al quale la minoranza bianca discriminava la maggioranza nera. In Sudafrica quattro milioni di bianchi dominavano su ventuno milioni di neri, asiatici e meticci. I bianchi erano discendenti dei coloni olandesi (boeri) che avevano occupato quelle terre secoli prima.
  • ·       Non veniva riconosciuto alcun diritto alla popolazione nera, erano proibiti i matrimoni misti, non c'erano scuole e locali pubblici aperti a bianchi e neri insieme, ai neri era permesso abitare solo in appositi quartieri o città, spesso poverissimi o fatiscenti.
  • ·       Contro l’apartheid andò organizzandosi la resistenza nera, riunita sotto le bandiere dell’African National Congress e del suo leader Nelson Mandela. Costretto all’illegalità dal 1961, l’African National Congress passò alla lotta armata, fino a quando all’inizio degli anni Novanta (1993) la coraggiosa iniziativa del leader bianco De Klerk consentì l’avviamento di trattative, sfociate nel superamento dell’apartheid, nel suffragio universale e nell’elezione di Mandela a presidente della repubblica.

Dopo anni di scontri, violenze, arresti, pressioni forti dell’opinione pubblica mondiale, questo assurdo e anacronistico regime ha cessato di esistere. Oltretutto, essendo il Sudafrica un paese ricco e industrializzato, non poteva continuare per sempre a vivere sullo sfruttamento di lavoratori tenuti in uno stato di semischiavitù.

Aranciotta S., Barchetti N., Benincasa E., Bernardinello G., Camassi E. - AFRICA: Terzo Mondo



martedì 8 maggio 2012

GIULIA BERNARDINELLO, ELISA CAMASSI - Ora, in.differenza!

Questo il video con cui Giulia ed Elisa, assieme ad altre ragazze del gruppo "Lea Garofalo" di Libera, Liceo "Laura Bassi" (Alma Fantin, Alice Rapisarda, Giulia Tedeschi, Letizia Turci), hanno vinto il premio della Fondazione Falcone "Capaci vent'anni dopo. Etica, valore e ruolo della memoria", nel quadro del percorso di educazione alla legalità promosso dal Ministero della Pubblica Istruzione.  Il premio consiste nel viaggio sulla "nave della legalità", per partecipare al "23 maggio 2012 - XX anniversario della strage di Capaci".


COMPLIMENTI!

venerdì 20 aprile 2012

MARCO SHAQIRI - lI Morgenstern



Tutti gli eserciti europei, eccetto quello italiano, durante la prima guerra mondiale hanno fatto uso di armi bianche - e in particolare di mazze ferrate - per la lotta corpo a corpo nelle trincee.
Inizialmente le truppe si trovarono a disagio nell'affrontarsi corpo a corpo, tenendo conto che uccidere con una pistola a distanza ravvicinata un nemico, magari in fin di vita, significava sprecare un proiettile, quindi soldi.
I primi che trovarono soluzione alla carenza di armi ideali per la lotta corpo a corpo furono i tedeschi (e successivamente gli inglesi e i francesi), munendosi di armi bianche, come coltelli e pugnali, anche di uso domestico, commerciale o artigianale.
Ed è in questo ambiente che fu riscoperto l'utilizzo di un'arma abbandonata da secoli, la mazza ferrata. Tutte le truppe europee ne furono tempestivamente munite. Le mazze inglesi hanno spesso la data di fabbricazione e due frecce (una contenente l'altra), che contrassegnano l'esercito britannico.
L'armata italiana rimase estranea all'utilizzo delle mazze, ma se ne nota, invece, l'uso massiccio da parte delle milizie austroungariche.
L'Italia vide il primo utilizzo delle mazze da parte del nemico probabilmente nella battaglia di S. Michele del 29 giugno 1916, quando i reggimenti 7 e 20 Honved  usarono tali mazze per finire i soldati italiani avvelenati dai gas asfissianti, come testimoniano i diari dei sopravvissuti.
Sul fronte austriaco c'era un certo orgoglio nella riscoperta dell'epico Morgenstern (“stella del mattino”), anche se quasi certamente fu nascosto alla popolazione civile il vero utilizzo dell'arma.
Lo Stato italiano, invece, venuto a conoscenza di questa brutalità, fece circolare un documento nel quale si ordinava la fucilazione diretta di nemici trovati con mazze addosso. L'orrore tra la popolazione fu talmente elevato, che i nemici cercavano di non farsi trovare con un Morgenstern per non essere uccisi istantaneamente.

Tra la popolazione si sviluppò  così la leggenda dell'arma barbarica, arricchita dalle descrizioni e dalle fotografie di giornali e manifesti, che facevano una violenta pubblicità contro l'esercito austriaco, tralasciando però volontariamente la notizia che la mazza ferrata era adoperata anche dagli alleati francesi e inglesi.
A Bologna furono trovate alcune mazze ferrate austriache, che oggi sono esposte al Museo del Risorgimento.
Si noti che numerosi furono i manicomi e gli ospedali psichiatrici aperti durante e subito dopo la Grande Guerra sul territorio bolognese. Spesso infatti vi erano ospitati i soldati provenienti dal fronte austriaco, diventati folli a causa delle barbarie commesse.

ANDREA QUADRI - La spada di Murat


La spada di Gioacchino Murat, re di Napoli nel periodo napoleonico, si trova oggi a Bologna nel Museo del Risorgimento. 
Gioacchino Murat sposò Carolina Bonaparte, che era la sorella minore di Napoleone, da cui ebbe quattro figli, due maschi e due femmine. 
La spada fu ereditata da una delle due figlie, Letizia, la quale si sposò con il marchese Guido Taddeo Pepoli e da questa relazione nacque Gioacchino Napoleone Pepoli. 
Gioacchino Napoleone fu un importante comandante della Guardia Civica di Bologna durante le rivolte dei cittadini bolognesi nei confronti dell’occupazione austriaca nell’ agosto del 1848. 
Letizia Murat donò la spada a suo figlio Gioacchino N. Pepoli,che divenne Sindaco di Bologna e alla sua morte la lasciò alla città, dove è tutt’ora conservata. 
Una curiosità riguarda la moglie di Gioacchino Napoleone Pepoli, Federica Guglielmina Hohenzollern-Sigmaringen, che era parente degli imperatori austriaci nemici del nonno del marito.

lunedì 16 aprile 2012

una canzone per Sarajevo


Fabio Zucconi - Bosnia: diario di viaggio


Venerdì 23 marzo

Dopo quasi cinque anni ho visitato la città di Trieste per la seconda volta. Poter camminare di nuovo per piazza Unità d’Italia, completamente affiancata al mare, mi ha fatto provare una sensazione di libertà e pace. Sono passato anche dal teatro romano, che l’ultima volta non avevo visto. Essendo ormai in rovina, del teatro sono rimaste solo le fondamenta.
Ciò mi ha fatto riflettere su quanto fossero avanzate le tecniche di costruzione degli antichi romani. Infatti è molto raro che le fondamenta di un edificio si conservino per duemila anni.
Dopodiché, ho raggiunto le statue di Umberto Saba e James Joyce, due scrittori e poeti che hanno ricordato la città di Trieste nelle loro opere. Il viaggio è continuato poi nella città di Lubiana, capitale della Slovenia, che dista solo un’ora da Trieste. Penso che Lubiana sia stata la città balcanica che mi ha affascinato di più: piena di ponti, edifici colorati e zone verdi.
Nella piazza principale c’era la statua di France Prešeren, poeta sloveno considerato dagli abitanti alla pari del nostro Dante. Un’altra cosa che mi ha colpito è che Lubiana, nonostante si trovi più isolata dal resto d’Europa, possiede più fascino e bellezza di molte capitali europee.

Sabato 24 marzo

Questa mattina saremmo dovuti partire per Sarajevo, ma a causa di un imprevisto (all’autista hanno rubato i documenti) siamo “costretti” a rimanere a Lubiana qualche ora in più, nell’attesa di un nuovo autista. Ma non tutti i mali vengono per nuocere: infatti abbiamo fatto un altro giro, addentrandoci in una parte di Lubiana che ieri c’era sfuggita. Camminando lungo una via di questo quartiere abbiamo notato che alcune paia di scarpe erano appese ai fili della corrente elettrica ed essendo curiosi abbiamo chiesto a un passante cosa significasse quel gesto. Egli ha risposto che quando una persona muore si usa appendere delle scarpe ai cavi elettrici per ricordarla.
Questo quartiere era particolare anche per i suoi graffiti. Due in particolare mi hanno stupito: il primo era un cuore dentro al quale vi era scritto“capitalism you are driving me crazy” (capitalismo mi stai facendo impazzire), l’altro invece raffigurava il simbolo dell’anarchia. Questi graffiti dimostrano che pure a Lubiana, nonostante sia lontana dal resto d’Europa, ci sono manifestazioni anarchiche e anticapitalistiche.
Nel primo pomeriggio l’autista è arrivato e siamo partiti per Sarajevo. Il viaggio è stato interminabile: più di dieci ore di pullman.
Una volta oltrepassata la frontiera per entrare in Bosnia, subito si sono presentate a noi case distrutte e colpite dalle bombe in una zona sperduta e desolata. Tutto era buio intorno a noi, sembrava quasi che i nostri pullman fossero i soli a vagare nella notte. La prima sensazione che provai fu una sorta di tristezza: vedendo quelle case bombardate mi chiesi perché l’uomo era arrivato a compiere un atto così violento come l’uccisione di oltre 11mila persone.
Siamo arrivati in hotel circa un’ora dopo.

Domenica 25 marzo

Oggi visita di Sarajevo. Ci siamo incontrati con la nostra guida e con Jovan Divjak, un generale bosniaco che ha partecipato alla guerra. Insieme siamo saliti sul colle più alto della città, dal quale si godeva di una vista magnifica. Durante la salita abbiamo siamo passati di fianco al cimitero musulmano, costituito da tombe che hanno la forma di obelischi bianchi. La cosa che però mi ha impressionato di più è stata la quantità di queste tombe bianche, che si estendevano dall’inizio del colle fino ad arrivare in pianura. Il generale Divjak ci ha raccontato la sua esperienza durante la guerra: allo scoppio della guerra nel 1991, egli si era arruolato nell’esercito serbo. Tuttavia, nel maggio 1992, quando iniziò l’assedio di Sarajevo, egli passò dalla parte dei “ribelli”: lasciò quindi l’esercito e si schierò con la popolazione croata e bosniaca rimasta in città, guidandone la difesa.
Dopodiché la nostra visita è continuata nel centro della città: abbiamo visto la moschea musulmana, la sinagoga ebraica, la cattedrale del Cuore di Cristo (cattolica) e la cattedrale serbo-ortodossa. Quella che mi è piaciuta di più come stile ed architettura è stata l’ultima: in stile barocco, la cattedrale serbo-ortodossa è sormontata da cinque cupole con un campanile all’entrata. Verso mezzogiorno, per rifocillarci, ci siamo fermati a pranzare in un ristorante la cui specialità era il cevapcici, piatto tipico bosniaco. Esso è costituito da un pezzo di pita (pane morbido lievitato) riempito con piccole salsicce di manzo e vitello, panna acida e cipolle.
Penso che sia la cosa più buona che ho mangiato durante questo viaggio. Nel pomeriggio abbiamo visitato il Tunnel della speranza. Questo tunnel fu costruito dagli assediati bosniaci con lo scopo di collegare la città di Sarajevo con l’area neutrale dell’aeroporto, in cui si trovava l’ONU.
Ciò permise ai soldati delle Nazioni Unite di rifornire la città di cibo, acqua e medicinali.

Lunedì 26 marzo

Quest’oggi abbiamo fatto visita al sacrario di Srebrenica. La cosa che mi ha colpito di più non appena siamo scesi dal pullman è stato il diverso colore che avevano le lapidi delle vittime.
Infatti, alle persone i cui corpi sono stati ritrovati era stata messa una lapide di marmo bianco, mentre coloro i cui corpi erano dispersi era stata messa una lapide di legno dipinta di verde.
Dopo una breve spiegazione introduttiva, in cui ci hanno spiegato che quel luogo è stato creato per ricordare e seppellire le vittime del genocidio del 1995, siamo andati in un capannone dove era esposto un reportage fotografico sulla guerra. Abbiamo anche visto un documentario in cui alcune madri raccontavano, con le lacrime agli occhi, in che modo avevano perso i loro figli durante la guerra. La visione di questo filmato mi ha fatto provare un senso d’angoscia e disgusto per le atrocità di guerra. Dopodiché abbiamo visitato un edificio adiacente parzialmente distrutto dai bombardamenti.
La visita a Srebrenica è stata quella che ha avuto su di me l’impatto emotivo più grande: l’angoscia, la tristezza, il disgusto provati erano tali che desideravo andarmene da quel luogo il più presto possibile.

Martedì 27 marzo

La destinazione odierna è stata Tuzla. Grazie all’associazione Tuzlanska Amica, abbiamo visitato una casa-famiglia in cui i bambini che hanno una situazione familiare difficile vengono accolti ed educati. Poi abbiamo visitato il cimitero di Tuzla e la cosa che mi ha più impressionato è stata l’età dei morti: la maggior parte di loro non aveva nemmeno vent’anni.
Dopo la spiegazione che la guida ci ha fornito sulla storia di Tuzla ed in particolare sul cimitero, il nostro compagno Massimo ha intonato al clarinetto un adagio di Mozart, affinché potessimo comprendere attraverso quella musica dal tono grave la tristezza provata dalle famiglie delle vittime.
In seguito, abbiamo visitato il centro di Tuzla e nel pomeriggio alcuni di noi hanno giocato una partita di calcio con alcuni ragazzi della casa-famiglia.

Mercoledì 28 marzo

Partenza da Sarajevo. Ricorderò i giorni passati in questa città con gioia. La prima tappa che abbiamo fatto è stata Mostar. Si tratta di una città turistica situata sul fiume Narenta, il cui ponte fu distrutto dai bombardamenti della guerra nel 1993 e ricostruito solo nel 2004. La guida ci ha raccontato che esiste tra gli abitanti di Mostar una sorta d’inimicizia risalente alla guerra: la popolazione è infatti composta da croati-bosniaci e bosniaci-musulmani che durante il conflitto si combattevano gli uni contro gli altri. Questa ostilità rimane ancora oggi, nonostante la guerra sia finita da più di quindici anni.
Dopodiché abbiamo passato qualche ora a fare acquisti e in seguito siamo partiti per Dubrovnik. Arrivati verso sera, ci siamo concessi una passeggiata nel centro della città. Dubrovnik è una città di mare, che ricorda molto le nostre Rimini e Riccione (mare inquinato a parte).

Giovedì 29 – Venerdì 30 marzo

Abbiamo visitato la città percorrendo le mura, lunghe 1940 metri. È stata una passeggiata piuttosto intensa, però ne è valsa la pena: le mura sono alte fino a 25 metri e da quell’altezza si ha una vista di Dubrovnik favolosa!
Dopo la passeggiata e una breve visita del centro città siamo partiti per Spalato, dove ci siamo imbarcati sul traghetto. La traversata dell’Adriatico è stata lunga, abbiamo impiegato circa dieci ore per raggiungere Ancona, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. In meno di due ore eravamo già a Bologna.

Considerazioni finali

Penso che non dimenticherò mai questo viaggio d’istruzione e sono contento di avervi partecipato perché, nonostante il forte impatto emotivo che ha suscitato in me, ho imparato qualcosa di più su una guerra che si è svolta in tempi recenti. Inoltre, ho avuto la possibilità di visitare città bellissime, che mi hanno veramente affascinato e che spero un giorno di poter rivedere.

lunedì 9 aprile 2012

STORIA - DOCUMENTI: La lettera di Einstein contro il giuramento di fedeltà al fascismo


La lettera di Einstein "al signor Alfredo Rocco, ministro nel governo Mussolini"


Egregio signore,

due dei più autorevoli e stimati uomini di scienza italiani, turbati nelle loro coscienze, si rivolgono a me e mi pregano di scriverle al fine di impedire, se possibile, un duro provvedimento che minaccia gli studiosi italiani. Si tratta del giuramento di fedeltà al regime fascista. La mia preghiera è che lei voglia consigliare al signor Mussolini di risparmiare al fiore dell’intelletto italiano un’umiliazione simile.
Per quanto diverse possano essere le nostre convinzioni politiche, io so che v’è un punto fondamentale che ci unisce; entrambi riconosciamo e ammiriamo nello sviluppo intellettuale europeo il bene più alto. Esso si fonda sulla libertà di pensiero e di insegnamento e sul principio che la ricerca della verità deve precedere ogni altro fine. È solo basandosi su un tale principio che la nostra civiltà è potuta sorgere in Grecia, celebrando la sua rinascita in Italia nell’epoca del Rinascimento. Quel bene, il più prezioso che noi possediamo, è stato pagato col sangue di martiri, di uomini puri e grandi, per opera dei quali l’Italia è tuttora amata e onorata.

Non è mia intenzione discutere con lei le giustificazioni che la ragion di Stato può avanzare circa gli attentati alla libertà umana. Ma la ricerca della verità scientifica, svincolata dagli interessi materiali di tutti i giorni, dovrebbe essere sacra a ogni governo, ed è per tutti del più alto interesse che i leali servitori della verità scientifica vengano lasciati in pace. Ciò è anche, senza dubbio, nell’interesse dello Stato italiano e del suo prestigio agli occhi del mondo.

STORIA: DOCUMENTI E DISCUSSIONI - Il giuramento di fedeltà al fascismo


da Simonetta Fiori, I professori che dissero "NO" al Duce, http://www.storiaxxisecolo.it/antifascismo/antifascismo5.html

Rettori delle università italiane ricevuti da Mussolini - 26/1/1930
"Sublimato all'un per mille", titolò sprezzantemente un giornale d'obbedienza littoria. [...] Sopra questi isolati viaggiatori che attraversarono la terra del no è scesa per settant'anni una nebbia densa di rimozione e imbarazzo. Come se l'insidioso orizzonte da loro - soltanto da loro - varcato rimarcasse l'ipocrisia, la fragilità, lo spirito di accomodamento, anche la pavidità di cui diede prova larghissima parte degli intellettuali italiani.
Ora quell'"un per mille" deprecato dalla stampa fascista dell'epoca - e utilizzato ora strumentalmente da alcuni giornali di destra che vorrebbero così dimostrare il radicamento del fascismo nella cultura - è al centro di due saggi che escono curiosamente quasi in contemporanea. A giugno sarà in libreria Preferirei di no di Giorgio Boatti, che mostra in filigrana il percorso dell'intellighenzia italiana attraverso dodici personalità differenti per origine, carattere, modi di pensare, attitudini sociali (Einaudi, pagg. 350, lire 28.000). Mentre è già disponibile il documentatissimo volume del tedesco Helmut Goetz, Il giuramento rifiutato, I docenti universitari e il regime fascista (La Nuova Italia, pagg. 314, lire 48.000), frutto di una puntigliosa ricerca condotta per trent' anni in archivi, memorie, giornali, corrispondenza privata, con inedite testimonianze personali che aprono inattesi squarci sui tormenti di coloro che s'adeguarono.
Discorso inaugurale del nuovo anno accademico - 10/11/1938

Sbaglia chi cercasse tra gli irriducibili dei "pericolosi sovversivi". Gli accademici più a sinistra seguirono il consiglio di Togliatti, che invitò i compagni professori a prestare giuramento. Mantenendo la cattedra, avrebbero potuto svolgere "un'opera estremamente utile per il partito e per la causa dell'antifascismo" (così Concetto Marchesi motivò a Musatti la sua scelta di firmare). Anche Benedetto Croce, stella polare dell'antifascismo, incoraggiò professori come Guido Calogero e Luigi Einaudi a rimanere all'università, "per continuare il filo dell'insegnamento secondo l'idea di libertà". Ci si mise anche il papa, Pio XI, che su idea di padre Gemelli elaborò un escamotage per i docenti cattolici: giurate, ma con riserva interiore.
Nonostante questa ciambella di salvataggio, gettata dall'influente troika, un'eroica minoranza disse di no. Nella minuscola schiera figurano tre giuristi (Francesco ed Edoardo Ruffini, Fabio Luzzatto), un orientalista (Giorgio Levi Della Vida), uno storico dell'antichità (Gaetano De Sanctis), un teologo (Ernesto Buonaiuti), un matematico (Vito Volterra), un chirurgo (Bartolo Nigrisoli), un antropologo (Marco Carrara), uno storico dell'arte (Lionello Venturi), un chimico (Giorgio Errera) e uno studioso di filosofia (Piero Martinetti). "Nessun professore di storia contemporanea, nessun professore di italiano, nessuno di coloro che in passato s'erano vantati di essere socialisti aveva sacrificato lo stipendio alle convinzioni così baldanzosamente esibite in tempi di bonaccia", lamentò l'esule Salvemini, il più sanguigno tra i censori dei firmatari.
Diversi per estrazione sociale e radici culturali - altoborghesi e figli di tabaccaio, religiosissimi e anticlericali, socialisti e liberali, repubblicani e monarchici, ebrei e cattolici - i dissidenti sono apparentati da una spessa moralità e da un'indole naturalmente fuori del coro. Nella vita di ciascuno di loro c'è un gesto dirompente - uno scatto ribelle, un moto di anticonformismo, forse una vena di follia - che appartiene, se non al loro personale carattere, al Dna familiare. Il prete modernista Buonaiuti aveva sfidato l'autorità della Chiesa, il criminologo Carrara il potere accademico, affiancandosi a quel Cesare Lombroso emarginato nella comunità scientifica. Lo scienziato Errera aveva respinto nel 1923 il Rettorato dell'Università di Pavia, "perché non si sentiva adatto". Del filosofo Martinetti si racconta che, rivolto all' esaminando Lelio Basso già condannato al confino di Ponza, proruppe: "Ma io non ho alcun diritto di interrogarla sull'etica kantiana: resistendo a un regime di oppressione lei ha dimostrato di conoscerla molto bene. Qui il maestro è lei. Vada pure, trenta e lode".
Quasi tutti - ad eccezione di pochi, Volterra e Ruffini, Venturi e Luzzatto - s'erano tenuti lontani dalla politica attiva, eppure animati da un radicato civismo che li spinse nel 1925 a firmare il celebre manifesto di Croce. Ricorrono nelle loro motivazioni una "repugnanza quasi fisiologica al fascismo" (Levi Della Vida), un'insofferenza morale "alla sua tronfia rettorica" e "alla sconcia apologia della violenza". Rifiutarono il giuramento in quanto contrario alla loro coscienza, agli "ideali di libertà, dignità e coerenza interiore" nei quali erano cresciuti. "Giuramento simile io non mi sento di farlo, e non lo faccio", replica con semplicità il chirurgo Nigrisoli alle ripetute sollecitazioni del rettore. Le conseguenze non erano da poco: perdita della cattedra, una pensione al minimo, persecuzioni, divieti, una vigilanza stretta e oppressiva.
Al lettore di oggi il loro gesto ribelle - motivato da tutti con sobrietà - appare quasi epico. Specie se raffrontato alla genuflessione dei loro colleghi. Tra coloro che giurarono fedeltà al duce figura il meglio della cultura antifascista, da Guido De Ruggiero ad Adolfo Omodeo, da Federico Chabod a Giuseppe Lombardo Radice, da Gioele Solari ad Arturo Carlo Jemolo, da Piero Calamandrei al mitico Giuseppe Levi. Alcuni erano persuasi che la battaglia antifascista andasse condotta dall'interno, ma per larga parte agiva il timore della miseria. [...]
Tra i professori che cambiarono opinione figura Giuseppe Levi, anatomista e istologo di fama internazionale, antifascista conclamato che aveva tenuto nascosto a casa sua Filippo Turati. Da un iniziale diniego, fu spinto a firmare dai suoi assistenti, "che temevano di perdere il maestro e la carriera". Levi giurò dopo che il ministro Giuliano gli aveva assicurato verbalmente che il giuramento era una pura formalità. Profondamente turbato, il papà di Natalia Ginzburg spiegò in aula il suo dilemma. "E gli studenti, felici di vederlo rimanere, lo ringraziarono con un uragano di applausi". Tranquillo cinismo (l'espressione è di Gennaro Sasso) mostrò l'illustre glottologo Giacomo Devoto: il giuramento ebbe per lui "il valore di un bicchiere di acqua fredda".
[...]
Alla metà degli anni Sessanta, a favore alla piccola schiera di irriducibili, ci fu chi diede battaglia, proponendo che i loro nomi fossero scolpiti sui muri delle università italiane. Si chiamava Ignazio Silone, e chissà cosa passava per la sua mente.

(La Repubblica, 16 aprile 2000)

 Domenica 16 aprile nelle pagine della Cultura di Repubblica è uscito un articolo di Simonetta Fiori intitolato "I professori che dissero no a Mussolini". A proposito di quell'articolo sono giunte tre lettere, che qui pubblichiamo: una degli eredi di Giuseppe Antonio Borgese, un'altra del nipote di Errico Presutti e un'altra ancora di Jader Jacobelli

Caro Direttore, nel prendere visione del libro di Helmut Goetz, Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, recensito su la Repubblica da Simonetta Fiori, abbiamo constatato con stupore che Giuseppe Antonio Borgese non figura tra i professori che rifiutarono di firmare il giuramento di fedeltà al regime fascista. È accertato che Borgese, in missione negli Stati Uniti, al momento dell'imposizione del giuramento nel 1931, non riprese servizio all'Università di Milano dove era ordinario di Estetica. La sua decisione di non rientrare in Italia fu motivata proprio dal rifiuto di prestare giuramento, come risulta da due lettere scritte dagli Stati Uniti a Mussolini nel 1933, nelle quali motivava il suo no al fascismo (pubblicate due anni dopo a Parigi sui Quaderni di Giustizia e Libertà). Borgese comunicò inoltre la sua decisione in una lettera al Rettore dell'Università di Milano in data 18 ottobre 1934: "Prego la S.V. di voler prendere nota che io non ho prestato, né mi propongo di prestare, il giuramento fascista prescritto ai professori universitari".
Sappiamo che Goetz si è occupato della posizione di Borgese rispetto al fascismo e al giuramento dei professori in un articolo del 1980, apparso sulla rivista dell'Istituto Storico Germanico di Roma. Anche per questo ci sorprende che nel libro di Goetz, pubblicato in Germania nel 1993, Borgese sia completamente ignorato. Ci sembra che l'omissione di una verità accertata e riconosciuta dai maggiori storici del fascismo sia grave e che nessun atteggiamento critico nei confronti di Borgese possa giustificarla.
Elisabeth Mann Borgese, Nica Borgese, Giovanna Borgese

* * *

Caro direttore, sono rimasto molto sorpreso nel constatare che nel volume di Helmut Goetz, accuratamente recensito da Simonetta Fiori, non si fa alcun cenno a proposito di mio nonno Errico Presutti, professore di Diritto amministrativo e di Diritto costituzionale a Napoli fino all'avvento del fascismo, dichiarato decaduto dalla Cattedra universitaria per essersi rifiutato di prestare il giuramento di fedeltà al regime. Errico Presutti fu Sindaco di Napoli nel 1917 e deputato per due legislature nel 1921 e nel 1926; fece parte dell' Aventino e fu quindi dichiarato decaduto dal mandato parlamentare; fu fin dall'inizio profondamente antifascista e lottò contro il regime insieme a Giovanni Amendola e a Roberto Bracco; il regime gli impedì, di fatto, di esercitare persino la professione legale nella quale era maestro. Pur essendo stato colpito da una paralisi totale che forzatamente lo estraniò dalla lotta politica e da qualsiasi attività, nel 1944 il Comando militare alleato, su proposta della Università di Napoli, gli conferì il titolo di Professore Emerito e successivamente il Ministro dell'educazione nazionale, De Ruggiero, lo reintegrò nella Cattedra universitaria a vita. Infine, a riconoscimento dei sacrifici sopportati nella sua opposizione al fascismo, venne eletto all'Assemblea costituente, alle cui sedute non poté mai partecipare per le sue condizioni di salute. Morì nel 1949 e le tappe della sua vita, che per obbligo di verità storica ho fin qui ricordato, vennero ripercorse alla Camera dei deputati nella commemorazione tenuta dall'on. La Rocca nella seduta del 26 luglio 1949.
Cordiali saluti.
Stefano Maria Cicconetti

* * *

Caro direttore, nel bell'articolo che Simonetta Fiori ha dedicato ai saggi di Giorgio Boatti e di Helmut Goetz sul giuramento fascista dei professori universitari nel 1931, si dice che esso fu imposto "dalla regia di Giovanni Gentile". Ma per la verità storica sarebbe bene ricordare che quel giuramento, nella bozza scritta dal grande filosofo, non prevedeva la fedeltà al regime, ma soltanto alla Monarchia, allo Statuto, e l'impegno di formare cittadini operosi, prodi e devoti alla Patria". Fu il ministro della Pubblica istruzione, Balbino Giuliano a fare quell'aggiunta.
Andrebbe anche ricordato che l'unico che rivolse ai tredici professori che non giurarono un pubblico riconoscimento fu Gentile. Nel verbale della seduta del Consiglio di Facoltà di Roma dell'11 gennaio 1932 si legge: "Il prof. Gentile prende la parola per dichiarare che certamente nell'animo della Facoltà, al rammarico per l'allontanamento di così insigni colleghi s'aggiunge un sentimento di stima pel nobile atto da essi compiuto per restare fedeli alla propria coscienza e compiere un dovere di lealtà verso il Regime... La Facoltà non può non rendere merito a questi colleghi, costretti ad allontanarsi da noi per una giusta legge, di aver dato ai giovani un encomiabile esempio di schietto e dignitoso carattere".
"Lacrime di coccodrillo" disse il professor Giorgio Levi della Vida, che non aveva giurato e se n'era andato, ma nelle sue memorie intitolate Fantasmi ritrovati scrisse: "Ripensandoci su, mi accorgo di essere stato cattivo; erano, sì, lacrime di coccodrillo, ma di un buon coccodrillo al quale veramente dispiaceva che l'inesorabile processo dialettico della storia lo avesse costretto a mangiare le sue vittime, e ora piangeva su di loro in assoluta sincerità di cuore".
Basta ciò a cancellare le responsabilità dell'adesione di Gentile a un regime dittatoriale? No, davvero. Ma ci dice come il fascismo di Gentile fosse "diverso".
Jader Jacobelli

Innegabile la "diversità" del fascismo di Gentile. Ma a proposito della regia sul giuramento di fedeltà al fascismo, la ricerca di Goetz rivela un suo appunto inedito indirizzato il 5 gennaio del 1929 a Mussolini. Scrive Gentile: "Esso (ndr, l' articolo 22 della legge sull'insegnamento universitario, ossia l'articolo del giuramento) con una breve aggiunta alla formula vigente potrà, come ho avuto l'onore di esporre a voce, risolvere la questione delicata e ormai urgente della fascistizzazione delle Università Italiane". L'integrazione alla formula di giuramento sarà poi realizzata da Balbino Giuliano. (S.Fio).

(La Repubblica, 23.4.2000)


I nomi dei docenti che rifiutarono di prestare giuramento furono: