martedì 31 gennaio 2012

FABIO ZUCCONI - La rivolta popolare dell'8 agosto 1848



Il dipinto rappresenta una fase della rivolta popolare che si svolse a Bologna l’8 agosto 1848.
Nella città erano infatti arrivate le truppe austriache per ripristinare il potere della papa, il quale l’aveva perso in seguito all’instaurazione di un governo di tipo repubblicano da parte dei francesi. Prima dello scoppio della rivolta, i membri appartenenti alla nobiltà e all’alta aristocrazia decisero di rifugiarsi sui colli di San Michele in Bosco, assumendo così un atteggiamento neutrale nei confronti del conflitto. In città rimasero solo i cittadini appartenenti alla borghesia e alle classi più umili.
Tuttavia ci fu un’eccezione: il conte Gioacchino Napoleone Pepoli, nobile bolognese imparentato con Gioacchino Murat e Napoleone Bonaparte, prese parte attivamente alla rivolta e fece commissionare questo dipinto per testimoniare la sua presenza ad un evento di grande importanza storica.
Esaminando a fondo questo quadro, si può notare che i cittadini bolognesi combattevano quasi a mani nude, utilizzando pistole di piccolo calibro, qualche fucile e dei forconi. Gli austriaci, invece, disponevano di fucili all’avanguardia, mazze chiodate e spade, senza contare il fatto che, stando a cavallo, avevano una migliore visuale della situazione.
Ciononostante, i bolognesi sconfissero l’esercito austriaco, che si ritirò a nord del fiume Po. 

ELENA BENINCASA, ELISA CAMASSI - Ugo Bassi

Ugo Bassi nel carcere di Comacchio, Carlo Ademollo 1867 circa



Il dipinto rappresenta la perquisizione che Ugo Bassi (1801-1849) subì nel carcere di Comacchio, per ordine del generale austriaco Gorzowsky, a causa del suo schieramento al fianco di Garibaldi. Il Padre barnabita, che apre l'abito talare a dimostrazione della sua innocenza, è rappresentato tra un gendarme pontificio ed alcuni dragoni austriaci, e da questi apertamente minacciato.




Ugo Bassi sul sagrato di S. Petronio, Napoleone Angiolini




Il quadro, eseguito da Napoleone Angiolini, rappresenta una delle orazioni eseguite dal frate barnabita Ugo Bassi sul sagrato della Chiesa bolognese di S. Petronio.
I suoi discorsi patriottici e rivoluzionari avevano una vasta influenza sulla cittadinanza che, come si vede nel quadro, vi assisteva in gran numero.

LA STORIA (da Giorgio Ravaioli, http://www.capannogaribaldi.ra.it/2giugno/ugobassi05.htm)

La partenza da Cesenatico e la cattura - Ugo Bassi e Giovanni Livraghi (patriota che prese parte alle imprese garibaldine) si diressero verso Comacchio. Alle 11 giunsero all'osteria della Lenza. Ugo Bassi venne scambiato per Garibaldi, e si sparse la voce. Qualcuno gli consigliò di abbandonare l'osteria. In città c’erano troppi soldati. Lo stesso chiese Livraghi, ma il Bassi non ascoltò. Accettò solo di trasferirsi all'osteria della Luna per consumare un frugale pasto. Questi ritardi favorirono la gendarmeria, che arrestò i due patrioti alle 11,45.
La curia di Comacchio, informata dell'accaduto, si presentò subito al comando austriaco e chiese il rilascio del Barnabita, protetto dal diritto canonico. Ma i poteri erano tutti in mano al generale Gorzkowski, governatore di Bologna.

L’arrivo a Bologna - Nel pomeriggio del giorno 5 agosto i due prigionieri vennero trasferiti a Bologna. Le due vetture procedettero sotto la scorta di 50 soldati austriaci, giunti da Ravenna. La sera del 7 agosto, a Bologna, i due vennero rinchiusi a Villa Spada, sede del generale Gorzkowski. La notizia dell'arrivo di Bassi e Livraghi si sparse per la città in un baleno. Al barnabita venne concesso un incontro con la sorella Carlotta. Subito dopo, con Livraghi venne condotto alle carceri della Carità, per attendere la sentenza. Non vi fu alcun "processo", neppure sommario. Il generale Gorzkowski volle ammonire con un "esempio" la popolazione a non far nulla in favore del "bandito" Garibaldi, di cui si erano perse le tracce. Gorzkowski accusò Ugo Bassi di detenzione d'armi e Livraghi, suddito austriaco, di diserzione, e ordinò l’immediata fucilazione dei prigionieri. La Curia o i Barnabiti non dovevano avere il tempo per fare pressioni e salvare la vita ai due.

La fucilazione - La mattina del giorno 8 agosto, a Villa Spada, due sacerdoti ebbero il compito assistere i condannati prima della fucilazione. Un ufficiale lesse loro il decreto di condanna a morte. Ugo Bassi era preparato. Conosceva la legge marziale e non si aspettava clemenza da Gorzkowski. Tuttavia protestò fieramente la propria innocenza: «Aveva assistito i morenti sul campo, non aveva mai negato il soccorso neppure ai nemici, non era armato, come non lo era il suo compagno, non era reo ...». Incatenati ai polsi, Bassi e Livraghi furono fatti salire coi due sacerdoti su un carro militare e condotti in via della Certosa. Vicino agli archi 66-67 dovettero scendere. Ugo Bassi salutò il compagno che doveva essere fucilato per primo: «Fra poco saremo congiunti», disse. Volle che fosse un sacerdote a bendarlo. Prese a recitare: «Ave Maria...», ma una fucilata troncò l'ultima parola. Fu sepolto senza bara, in una fossa insieme al Livraghi.

Nei giorni successivi, gruppi di bolognesi si recarono sulla tomba, la coprirono di fiori e ne tolsero zolle di terra per ricordo. Per impedire ai bolognesi di manifestare i loro sentimenti di amore e di devozione al martire, nella notte fra il 18 e il 19 agosto i due corpi vennero esumati e occultati nell'interno del cimitero della Certosa.
Soltanto nell'agosto del 1859 i parenti ottennero che le ossa di Ugo Bassi fossero collocate nella tomba di famiglia accanto ai genitori.

lunedì 30 gennaio 2012

FABIO ZUCCONI - Facebook e i social network: consigli per l'uso


Fino a dieci anni fa, quando due persone si conoscevano, erano solite scambiarsi i numeri di telefono per tenersi in contatto.
Adesso, all’alba del XXI secolo, con l’avvento di Internet e dei social network, la tipica domanda che viene posta ad una persona appena conosciuta è: “hai Facebook?”. Ma che cos’è realmente Facebook? Scopriamolo insieme. Facebook è un social network. È letteralmente una rete sociale, cioè un sito sul quale gli utenti che si iscrivono possono condividere le loro opinioni con i loro amici. Col tempo, Facebook è stato implementato e arricchito con nuove funzioni, quali programmare eventi, creare sondaggi, gruppi, pagine fan e segnalare la propria posizione geografica. Tuttavia, si sentono spesso pareri discordanti sull’utilizzo giusto o sbagliato di questo strumento virtuale. Esaminiamone quindi vantaggi e svantaggi.
In principio, lo scopo con il quale è nato Facebook era mantenersi in contatto con i propri amici. Infatti, a differenza del telefono e della corrispondenza cartacea, il social network costituisce un mezzo più economico e rapido rispetto ai normali metodi di comunicazione. L’iscrizione al social network è gratuita, è questo è un dato fondamentale che ha contribuito allo sviluppo di questo sito su scala mondiale. Inoltre, la possibilità di creare gruppi su Facebook è stata ben accolta anche da scuole e università, in quanto è possibile crearne in cui gli studenti possono interagire tra di loro e con gli insegnanti per scambiare pareri, opinioni e chiedere delucidazioni in merito al lavoro didattico.
Inoltre, il fatto che oggi così tanta gente possa parlare fa sì che per ogni individuo sia più facile farsi ascoltare ed entrare in una vera conversazione pubblica. Al contempo, sulla rete ci sono un sacco di sciocchezze.
Ma incontrare queste assurdità è positivo.
Ci insegna a essere scettici, a cercare riferimenti incrociati e più in generale a trovare da soli ciò che ci serve. Tuttavia, come diceva Shakespeare, non è tutto oro quel che luccica, e per questo motivo esaminiamo adesso gli svantaggi del social network. Innanzitutto, è risaputo che crea dipendenza. Questo a causa delle numerose applicazioni che coinvolgono gli utenti a tal punto da far dimenticare loro il mondo esterno. Per questo motivo, molte aziende hanno impedito ai loro dipendenti la navigazione su questi siti affinché essi non si distraessero dal lavoro.
Un altro svantaggio legato all’utilizzo di Facebook è relativo alla privacy. Se non si regolano adeguatamente le impostazioni sulla condivisione di determinate informazioni, si può rischiare di essere vittime di adescamento on-line, fenomeno sfortunatamente sempre più in crescita al giorno d’oggi.
Infatti, dove inizia il nostro potere di connessione inizia il pericolo sulla nostra libertà individuale. Oggi, con la tecnologia è possibile controllare chiunque, sapere con chi parla, dove si trova, come si sposta. Questo è appunto il grande pericolo: creare un grande occhio che seppellisca l’uomo e la sua creatività sotto il controllo dei tecnici, una sorta di grande fratello orwelliano. In conclusione, nonostante Facebook possa rivelarsi un’arma a doppio taglio, con le opportune precauzioni, esso costituisce un modo pratico e veloce per scambiare idee ed opinioni con i propri amici.




FABIO ZUCCONI - Giovani di ieri e giovani di oggi


Uno sguardo d'assieme alle forme di espressione passate e presenti

Quando si parla di cultura giovanile s’intendono i cambiamenti che una parte degli adolescenti di una generazione adotta per differenziarsi dalla massa. Per questo motivo è più corretto definire la cultura giovanile una subcultura.
 I giovani hanno espresso negli ultimi quattro decenni il loro modo di essere e di pensare in maniere sempre più differenti. Infatti, verso la fine degli anni ’50 nacque negli Stati Uniti un movimento culturale chiamato Beat Generation. Molti critici letterari si sono a lungo soffermati sul significato del termine beat, il quale possiede in inglese una vasta gamma di accezioni. In ogni caso si può ricondurre questo termine al sostantivo beatitude (beatitudine), una specie di elevazione ascetica ed estatica causata dall’uso di droghe e alcol. Beat può voler dire anche “battuto”, cioè sconfitto dalla società, dagli schemi imposti. La Beat Generation è un movimento di richiamo alla vita libera e al carpe diem.
A partire dagli anni ’50, i giovani hanno espresso questo loro anticonformismo nelle più svariate forme comunicative. In campo letterario il massimo esponente di questo movimento è Jack Kerouac, autore del romanzo Sulla strada. Quest’ultimo racconta le avventure di Sal Paradise e dei suoi amici che intraprendono un viaggio in auto attraverso tutta l’America, in cerca di forti emozioni ed esperienze. Durante il viaggio Sal e i suoi amici, incapaci di adattarsi alla società e alle regole da essa imposte, combinano ogni genere di stupidaggini sotto l’effetto di droghe e alcol. Alla fine però, il protagonista decide di tornare a New York riprendendo a frequentare l’università e conducendo una vita normale. Tuttavia, dopo un incontro con Dean, uno dei suoi amici, decide di ripartire, confermando così la sua indole ribelle. Anche la musica dei primi anni ’60 risente dell’influenza della Beat generation, in particolare le canzoni di Bob Dylan e Joan Baez, i quali nella fattispecie appartenevano al genere del folk-beat. Questo filone, tipico nordamericano e britannico, prevede dal punto di vista musicale l’uso di strumenti acustici come l’armonica a bocca e la chitarra. I testi delle canzoni affrontano invece tematiche di protesta, che sfoceranno in seguito nelle manifestazioni di massa del 1968. In quell’anno, infatti, gli studenti di tutto il mondo si riunirono per protestare contro il sistema capitalistico, il quale aveva diffuso l’idea del consumismo, del denaro e del mercato come punti centrali nella vita sociale.
Gli operai manifestavano invece per ottenere salari più alti e turni di lavoro meno duri, in modo da poter condurre una vita più dignitosa.
Negli Stati Uniti le lotte si focalizzarono soprattutto contro la guerra del Vietnam, insieme alle battaglie dei neri per il riconoscimento dei diritti civili. La lotta contro la guerra in Vietnam fu portata avanti dagli hippy, in seguito rinominati “figli dei fiori”, in quanto i fiori erano la loro unica arma di difesa.
Si trattava di una protesta non violenta, in quanto gli hippy non intervennero fisicamente per fermare i soldati in Vietnam. Essi si limitavano a predicare la pace e l’amore tra i popoli facendo largo uso di allucinogeni quali l’acido lisergico (LSD).
Anche Martin Luther King aspirava pacificamente all’integrazione degli uomini di colore all’interno della società americana.
Per quanto riguarda le moderne forme di espressione, la più comune è il rave party, una festa generalmente illegale, che si svolge in spazi aperti ascoltando musica elettronica. Tuttavia, nonostante i questi tipi di festa sembrino diversi dalle forme di espressione finora menzionate, essi hanno alcuni elementi in comune con i movimenti beat e hippy degli anni cinquanta e sessanta. Infatti, lo scopo principale di un rave party è il consumo di droga e alcol, i quali permettono ai giovani di raggiungere uno stato di estasi profonda, facendo dimenticare loro qualsiasi problema. A partire da questi comportamenti, lo psicologo Diego Miscioscia, ha rilevato tre differenti strategie a cui i giovani ricorrono spesso per risolvere i loro disagi interiori. La prima, di marca infantile, è fondata sulla regressione e sulla fuga dalla realtà per affrontare il dolore ed il disagio della crescita. Essa suggerisce quindi di ricercare il piacere ed il benessere nell’ambito della fantasia e dell’illusione. Tutto ciò si può trovare ad un rave party. In quest’esperienza, si apre il grande spazio onirico delle droghe, la dimensione del gioco e del consumo. La seconda strategia utilizza la trasgressione e la provocazione per richiamare l’adulto alle sue responsabilità e per elaborare le difficoltà dell’adolescenza. La terza strategia, infine, la più creativa, prefigura un modo nuovo di guardare al futuro, più carico d’affettività, pace e socialità. Essa s’appoggia sulle capacità intuitive ed artistiche dei giovani, e lascia intravedere più chiaramente una realtà futura in cui potranno aprirsi nuovi spazi espressivi e comunicativi.

domenica 29 gennaio 2012

SOFIA ARANCIOTTA, GIULIA BERNARDINELLO - Uniformi e nazione
















Questo capo di abbigliamento rappresenta la divisa della Guardia Nazionale.
La Guardia Nazionale fu istituita per la prima volta in Francia nel 1791 allo scopo di mantenere l’ordine pubblico e rappresenta una delle prime attuazioni dei principi della Rivoluzione francese.


A Bologna i primi reparti furono costituiti in seguito all’ingresso delle truppe di Napoleone Bonaparte, avvenuto il 18 giugno 1796: la città acquistò l'indipendenza e i giacobini bolognesi formarono questo corpo di polizia.
La città fu divisa in 4 cantoni, a ciascuno dei quali furono assegnati due battaglioni, composti dai cittadini di età compresa fra i 18 e i 50 anni.
Dopo l’ingresso degli Austriaci a Bologna, il 21 marzo, la Guardia fu sciolta, e fu poi ripristinata e abolita più volte nel corso degli anni Trenta dell’Ottocento. Nel luglio 1847 Pio IX autorizzò la costituzione di una Guardia Civica in tutto lo Stato pontificio, che i cittadini più vicini alla corrente mazziniana non tardano a considerare come il preludio di un esercito cittadino volto alla conquista dell’indipendenza dell’Italia.


Le uniformi dei soldati italiani erano estremamente piccole in proporzione agli uomini di oggi. Ciò fa intuire come potesse essere diffuso uno stile di vita non salubre, caratterizzato dalla mancanza di riscaldamento in casa, da una mal nutrizione dovuta alla scarsa assunzione di cibo e dalle eccessive ore di lavoro.
Più era alto il grado della carica che veniva ricoperto, più le uniformi erano grandi. questi fattori possono essere ricollegati a una condizione più privilegiata e dunque a maggiore disponibilità di cibo e agi. Inizialmente le uniformi avevano solo i due colori dello stato della chiesa, il bianco e il verde. La successiva aggiunta del rosso ha fatto sì che esse rappresentassero l'uniforme ufficiale del corpo italiano.

lunedì 23 gennaio 2012

SUSANNA REGAZZI - Coccarde e insegne tricolore


L'usanza, nata durante la rivoluzione francese, di portare appuntata sulla veste una coccarda o al collo una sciarpa coi colori nazionali (il bianco del Re e il blu e il rosso della città di Parigi), fu poi ampiamente imitata in Italia durante il Risorgimento.
Durante le campagne napoleoniche, infatti, nel nostro Paese si diffuse il tricolore francese per identificare i rivoluzionari, e in seguito si sostituì il blu con il verde, come conseguenza di un atteggiamento più patriottico, in quanto la divisa della Guardia Civica milanese era di questo colore. Il bianco e il rosso, dopo la rivoluzione francese, erano invece diventati simbolo della rivoluzione, intesa come affermazione della sovranità del popolo e della libertà per il Paese.
La sciarpa e la coccarda erano simboli di riconoscimento fra i patrioti ed emblema di rivendicazione pubblica della lotta per l'unità. Spesso erano cucite dalle mogli dei borghesi patrioti, le quali partecipavano in questo modo all'ideale politico.
Questi segnali nacquero dal bisogno degli Italiani rivoluzionari di riconoscersi in un simbolo unico, che suscitasse un sentimento di appartenenza a una nazione, per costituire la quale bisognasse unire i propri sforzi e le proprie passioni.

CHIARA LORENZINI- Il tricolore italiano


Ciò che più mi ha colpito del Museo del Risorgimento è il tricolore italiano. Oggi questa bandiera è molto importante per il nostro paese, perché ci permette di contraddistinguerci come nazione, ed è per questo che ho ritenuto importante analizzarne la storia, senza contare che l'argomento può essere ricollegato alla mia tesina d'esame, poiché le prime bandiere tricolori furono cucite dalle donne favorevoli alla causa nazionale.
Il tricolore italiano si ispira alla bandiera francese, che si diffuse in Italia durante le campagne napoleoniche. La bandiera è composta da tre bande verticali di uguale grandezza: una verde, una bianca e una rossa. Si scelse questo disegno perché ricordava la Rivoluzione Francese e ne riportava alla memoria gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità.
Il verde simboleggiava la speranza, ma aveva un secondo significato: poiché il verde era il colore della Guardia Civica Milanese, esso venne a rappresentare coloro che avevano combattuto per la libertà italiana. Il bianco simboleggiava la fede cattolica (che era professata dalla maggior parte del territorio italiano) e le Alpi, famose per i loro ghiacciai. Infine, il rosso indicava il sangue che era stato versato per ottenere l'Italia.
La nascita del Tricolore si deve a due studenti, Luigi Zamboni di Bologna e Giovan Battista de Rolandis di Castell'Alfero, che nel settembre del 1794 si riunirono per deciderne i colori. Le prime bandiere e coccarde tricolori furono cucite dalla madre e dalla zia di Luigi Zamboni nel "Canton dei Fiori".

Una prima versione del Tricolore fu usata come Vessillo Militare dei Cacciatori a Cavallo della Legione Lombarda e fu esibito dai patrioti che nel 1796 si arruolarono nell'Armata d'Italia per combattere contro l'Austria.
Sotto il dominio francese il tricolore italiano ebbe varia fortuna. Quando nel 1796 nacque la Repubblica Cisalpina, fu decisa per questa una bandiera nazionale composta da tre bande orizzontali. Al centro vi erano le iniziali R e C, che indicavano la repubblica, e una faretra con quattro frecce, che rappresentavano le quattro province originali della Repubblica (Bologna, Ferrara, Modena e Reggio); il tutto era coronato da una corona d'alloro.
Nel 1802 Napoleone si proclamò presidente della Repubblica Cisalpina, cambiandole il nome in Repubblica Italiana. Fu sostituita anche la bandiera, che assunse la forma di un rettangolo rosso, contente un rombo bianco al cui interno vi era un quadrato verde. La bandiera rimase la stessa anche quando Napoleone fu nominato re d'Italia, ma ad essa venne aggiunta l'aquila napoleonica.
La bandiera diventò poi un simbolo dei moti liberali del '30 e del '48: infatti, durante la prima Guerra di Indipendenza fu disegnata una nuova bandiera italiana, che portava al centro lo Stemma Sabaudo, costituito da una croce bianca su sfondo rosso. Anche la Repubblica Romana possedeva un tricolore recante l'acronimo RR (Repubblica Romana ).
Si iniziò ad utilizzare il tricolore attuale dopo il Referendum del 18 giugno 1946 che decretò l'inizio della Repubblica Italiana. Venne anche stabilito un giorno (7 gennaio ) in cui celebrare la Festa del Tricolore.

lunedì 16 gennaio 2012

Adome Blaise Kouassi - La peine de mort en Afrique subsaharienne.


La situation de la peine de mort en Afrique subsaharienne.


Introduction

Si comme l’affirme le poète Persan, SAADI :
« Avoir pitié de la panthère, c'est être injuste envers les moutons.»,
nous disons aussi que « l’élimination de la panthère ne rendra pas les moutons à la prairie ».

L’exécution le 21 septembre 2011 par injection de Troy Davis (un Noir) en Georgie, sud-est des USA, après être resté plus de 20 ans dans le couloir de la mort pour le meurtre d’un policier (Blanc) vient nous rappeler encore une fois, si encore besoin en était, combien la peine de mort est un châtiment cruel, dégradant, inhumain, etc., une négation inacceptable du droit à la vie. Et pourtant jusqu’à son dernier souffle M. Davis a clamé son innocence d’autant plus qu’il y avait de sérieux doutes sur sa culpabilité.
La peine de mort, ce châtiment extrême a toujours déchaîné des débats passionnels suscitant parfois des réactions instinctives dont les partisans et adversaires se battent à coup d’argumentations rationnelles. Pour les uns en effet la peine de mort est une arme de dissuasion. Par la crainte qu'elle inspire, elle peut retenir un criminel. Pour les défenseurs de cette thèse la peine de mort permet á la société de se prémunir contre ses ennemis les plus dangereux en les expulsant définitivement de celle-ci, revenant dès lors á la loi du Talion, « œil pour œil, dent pour dent » et j’ajouterai, meurtre pour meurtre. Cette théorie pragmatique aurait pour finalité de faire baisser le taux de criminalité. Ce raisonnement traditionnel, d'ordre utilitaire [1]est le plus utilisé de nos jours pour justifier le maintien des articles qui prévoient la peine capitale dans des Codes pénaux de certains pays.
Pour les autres par contre, cette finalité de la peine de mort consistant en l’élimination physique n’a jamais permis de freiner l’ascendance de la criminalité. Elle n’aurait jamais été intimidante pour les criminels. Bien au contraire elle permettrait à ceux-ci d’être plus violents dans leurs forfaits et surtout de ne laisser aucune trace de vie, aucun témoin de leurs actes. L’Afrique ne vivant pas dans un « no man’s land », ne vivant donc pas en vase clos a été atteint par ce débat. Qu’en est-il de la peine de mort dans les pays d’Afrique subsaharienne ?
Y pratique-t-on le châtiment extrême ? L’Afrique est un continent qui regroupe avec l’indépendance le 9 juillet 2011 de la République du Sud Soudan 55 pays[2]. Tous les Etats sont-ils réfractaires á la peine de mort ? Combien sont-ils pour cette peine capitale ? Pour apporter quelques éléments de réponse à ces interrogations nous verrons dans un grand I les Etats abolitionnistes d’Afrique subsaharienne. Nous verrons ensuite dans un grand II les Etats qui pratiquent encore la peine de mort devenant ainsi réfractaires à la résolution de la Commission africaine des droits de l’homme et des peuples sur le moratoire de la peine capitale.



I. Les Etats abolitionnistes de la peine de mort d’Afrique subsaharienne
En 1948 la Déclaration universelle des droits de l’homme proclame le droit à la vie et le respect de la personne humaine; en 1950, est signée la Convention européenne de droits de l’homme dont le principe essentiel est le respect dû à la personne humaine.[3] Ce principe est d’ailleurs entériné par la Charte africaine des Droits de l’Homme et des peuples de 1981. Il a fallu cependant plus d’un demi-siècle, pour que l’Union africaine lors de sa 44ème session ordinaire tenue du 10 au 24 novembre 2008 á Abuja, au Nigeria, crée une commission africaine des droits de l’homme. Celle-ci adoptera une résolution appelant les Etats africains á observer un moratoire sur les exécutions. Ce qui constituera un énorme pas vers l’abolition totale de la peine de mort au sein de l’Union africaine. Cette Commission réunie en sa 46ème session ordinaire tenue du 11 au 25 novembre 2009 á Banjul, en Gambie a rappelé  encore une fois sa mission de promouvoir les droits de l’homme et des peuples et de veiller à leur protection en Afrique en vertu de la Charte africaine des droits de l’homme et des peuples. Elle a aussi rappelé la résolution ACHPR/Res. 42 (XXVI), adoptée lors de la 26ème session ordinaire tenue à Kigali, Rwanda qui exhortait les Etats à envisager un moratoire sur la peine de mort.
En adoptant cette résolution, la commission africaine s’est alignée sur la tendance générale á l’abolition de la peine de mort. C’est pourquoi 16 Etats se sont inscrits aussitôt dans cette droite ligne de l’abolition de la peine de mort dans leurs textes juridiques. Ce sont :

1) Afrique du sud : Dernière exécution : 1991 ; Abolition : 1997, Ratification du protocole : 2002
2)         Angola : abolie en 1992
3)         Bénin : abolie en août 2011
4)         Burundi : abolie 2009
5)       Cap Vert, dernière exécution en 1835 ; abolition en 1981 ; ratification en 2000
6)         Côte d’Ivoire, abolie en 2000
7)         Djibouti, abolie en 1995 ; ratification en 2002
8)         Gabon, abolie le 21 février 2011
9)         Guinée Bissau, abolie en 1993
10)       Maurice, abolie en 1995 ; dernière exécution 1987
11)       Mozambique, abolie en 1990 ; dernière exécution en 1986, ratification en 1993
12)       Namibie, abolie en 1990 ; ratification en 1994
13)       Rwanda, abolie en 2007, ratification en 2008
14)       Sao Tomé et Principe, abolie en 1990
15)       Sénégal, abolie en 2004, dernière exécution en 1967
16)       Seychelles, abolie en 1993 ; ratification en 1994
17)       Togo, abolie en 2009
Parmi ces pays les uns ont non seulement aboli la peine de mort dans leurs textes juridiques, en l’occurrence dans les codes pénaux et la constitution, mais ils ont aussi ratifié le 2ème Protocole facultatif au pacte international relatif aux droits civils et politiques des nations Unies. Ce sont :
1)         Afrique du sud : Abolition : 1997, Ratification du protocole : 2002,
2)         Cap Vert, abolition en 1981 ; ratification en 2000
3)         Djibouti, abolie en 1995 ; ratification en 2002
4)         Mozambique, abolie en 1990, ratification en 1993
5)         Namibie, abolie en 1990 ; ratification en 1994
6)         Rwanda, abolie en 2007, ratification en 2008
7)         Seychelles, abolie en 1993 ; ratification en 1994
Ils sont ainsi 7 pays qui ont aboli la peine de mort et ratifié le protocole des Nations Unies sur la question.
A côté de ces pays, nous avons ceux qui ont simplement aboli la peine de mort dans leur arsenal juridique sans pour autant avoir ratifié le 2ème Protocole facultatif au pacte international relatif aux droits civils et politiques des nations Unies.

II. Les Etats « voyous » ou encore les Etats d’Afrique subsaharienne appliquant la peine de mort.
Dans cette catégorie de pays nous observons aussi deux cas. Il y a un groupe de pays, qui, il est vrai, n’ont pas aboli la peine de mort dans leurs arsenaux  juridiques mais qui cependant ne l’appliquent pas depuis plus de dix ans, respectant ainsi le moratoire de la commission africaine. A côté de ceux-ci il y a évidemment les Etats qui ne veulent d’intervention étrangère dans leur loi interne l’appliquant dès lors dans toute sa rigueur. Voyons donc le premier cas cad,

A. Les Etats ayant plus de 10 ans de non application de la peine de mort
Ils sont au nombre de 21. Ce sont : Algérie, Burkina Faso, Cameroun, Centrafrique, Comores, Congo, Gambie, Ghana, Kenya, Lesotho, Libéria, Madagascar, Malawi, Mali, Maroc, Mauritanie, Niger, Swaziland, Tanzanie, Tunisie, Zambie.
B. Les Etats appliquant véritablement la peine de mort
Enfin voyons le dernier cas, cad les Etats qu’on peut appeler voyous car restant sourds aussi bien au moratoire de la Commission de l’Union africaine qu’au 2ème Protocole facultatif au pacte international relatif aux droits civils et politiques des nations Unies. Ce sont : Botswana, Egypte, Erythrée, Ethiopie, Guinée française, Guinée équatoriale, Libye, Nigeria, Ouganda, RDC, Sierra Leone, Somalie, Soudan du Nord, Soudan du Sud, Tchad, Zimbabwe. Ils sont donc au nombre de 16 Etats.

Conclusion
La peine de mort est un héritage de l’arsenal juridique colonial dont sont inspirés les codes pénaux des pays d’Afrique subsaharienne. Les anciens pays colonisateurs ont cependant modifié leurs textes de loi permettant de supprimer la peine de mort. Plus de 50 ans après la vague de la décolonisation certains pays maintiennent encore la peine de mort dans leurs arsenaux juridiques. Ainsi tant que ces textes n’ont pas été modifiés les juridictions de ces Etats continueront à prononcer la peine de mort là où elle est requise. Il faut cependant dire que la peine de mort est encore largement plébiscitée par certaines populations africaines surtout dans le contexte actuel d’insécurité, de narcotrafiquants et de terrorisme dans ces pays. De plus la subsistance de la peine de mort dans certains Etats africain est étroitement liée à loi islamique, la charia ou encore à la persistance des guerres internes, c’est pourquoi la question de son abolition s’avère relative ou même difficile.
En outre dans certains pays en Afrique le maintien de la peine de mort est une épée de Damoclès pour tous les défenseurs de droit de l’homme (souvenons-nous du Nigeria de l’ex-Président Sani Abacha qui fit l’exécuter Ken Saro Wiwa, un défenseur des droits de l’homme en région  Ogonis au Nigéria). 
Elle devient un moyen d’oppression contre tous les partis d’opposition, un outil efficace pour contrôler les populations quand on sait que les décisions sont régulièrement rendues contre les membres de l’opposition au Tchad, en RDC ou encore au Zimbabwe. C’est pourquoi l’Union Africaine a créée une Commission des Droits de l’homme qui a adopté une résolution appelant les Etats membres á observer un moratoire sur l’exécution de la peine capitale en vue de l’abolir, conformément à la Résolution 62/149 de l’Assemblée Générale des Nations Unies, adoptées en 2007 sur la peine de mort mais aussi en conformité avec les tendances actuelles du droit international qui encouragent l’abolition de la peine de mort, en particulier, le 2ème Protocole facultatif au pacte international relatif aux droits civils et politiques, les Statuts de la Cour Pénale internationale et la résolution 2005/59 de la commission des droits de l’homme des Nations Unies relative à la peine de mort. La mise au travail de la commission a permis de mettre en mouvement l’abolition de la peine capitale sur le continent. Ainsi comme nous l’avons vu, les 2/3 des pays du continent africain sont abolitionnistes en droit (17) et en fait (21) et 13 autres ont accordé un moratoire á son application (certains viennent des 21 et les autres sont des 16 restants), démontrant ainsi que sur ce terrain, l’Afrique pour une fois n’est pas une championne des exécutions capitales.

Le droit pénal traditionnel africain
Au vu de ce qui précède remarquons que la peine de mort a existé dans plusieurs pays africains et existent encore aujourd’hui dans certains autres. Cependant cette peine en tant que telle était inconnue dans le droit pénal traditionnel africain. Cela s’explique par le fait que les buts poursuivis ne sont pas les mêmes. En effet dans le droit moderne la fonction rétributive et utilitaire de la peine selon l’approche classique repose sur ce postulat fondamental selon lequel l'être humain est doué d'un libre arbitre. En conséquence, il choisit librement de commettre les actes interdits par la loi pénale. Les doctrines rétributives, issues de l'Ancien régime, assimilent la faute au péché. La peine, juste en elle-même, doit faire souffrir le condamné, la douleur étant posée comme condition d'expiation de la faute commise. Les théories utilitaires, issues de la période révolutionnaire, sont dominées par le souci de défense de la société. Elles prônent que la peine a pour but d'empêcher le crime. On comprend alors que les doctrines rétributives s'attachent à atteindre le condamné lui-même par des châtiments corporels souvent définitifs. A l'inverse mais avec autant de vérité, la peine utilitaire doit conduire à détourner du crime par intimidation, le « crime devant se faire davantage craindre par la répression à laquelle il expose que désirer par la satisfaction qu'il procure». C’est donc une notion de prévention du crime qui domine ici.
Dans le droit traditionnel par contre la peine n’a pas ce but expiatoire car ce droit n’a pas pour objectif de trancher un conflit entre les parties et préciser qui a tort et qui a raison comme cela se voit dans le droit moderne. Sa tâche principale consiste á apporter la paix sociale dans la communauté, à réunifier la société troublée par un de ses éléments. La cohésion de l’ensemble du groupe se trouve établie de même que l’harmonie entre les membres de ce groupe social. C’est pourquoi la recherche de cette cohésion repose d’abord sur les épaules des plus anciens mais aussi sur tous les membres de la communauté. Cette conviction repose sur des conceptions mystiques.
L'obéissance à la loi traditionnelle est un acte de respect envers les ancêtres, dont les pieds restent dans le sol et l’esprit surveille les vivants: C’est pourquoi chacun sait exactement ce qui devrait arriver et ce qui est interdit. L’on suit volontairement les coutumes traditionnelles et ne se demande pas si cela est légal ou non. La conséquence d'une désobéissance à ce droit conduirait à une violente réaction des esprits des ancêtres.
La commission d’une infraction ou d’une déviance s’expliquera par des phénomènes surnaturels, extérieurs ou intérieurs qui auraient poussé l’infracteur á commettre l’infraction. Dès lors celui qui commet cette infraction n’est pas un auteur mais plutôt une victime d’un déterminisme auquel il n’a pas pu échapper. Dès lors la sanction ne peut être une mesure expiatoire ou de vengeance comme dans le droit moderne mais plutôt comme des mesures permettant à l'auteur-victime de pouvoir réintégrer la société et permettre à la communauté d’être unie. Ces mesures pourraient consister à des séances d’exorcisme pour libérer l’individu des esprits mauvais qui l’habiteraient et l’auraient conduit sur le mauvais chemin de l’infraction ou de la déviance ou encore en des châtiments corporels destinés á extraire le mauvais esprit du corps de l’individu mis en condition de transe en le battant.





[1] Jean TOULAT, La peine de mort en question, p. 43, éditions pygmalion, Paris 1977.
[2] Tous ces pays sont membre de l’Union africaine sauf le Maroc qui avec l’entrée de la RASD a décidé ne plus faire partie de l’Union.
[3] Thibault, Laurence: La peine de mort en France et à l’étranger, éditions Gallimard, Paris 1977.

mercoledì 11 gennaio 2012

ELISA CAMASSI, MASSIMO AMADORI - Nebbia


MAUTHAUSEN

Nebbia, freddo, fragilità, abbandono, tortura, dolore, paura, nudità, dignità, annullamento, organizzazione, violenza, distruzione, morte.
Vedere di persona i luoghi dell'Olocausto fa comprendere che la follia umana non ha limiti.
Vedere quei luoghi, ascoltare le storie del campo, toccare e sentire l’odore di ciò che è rimasto è del tutto diverso dal sentirne parlare.
Rabbia, stupore, tristezza.
È difficile dire ciò che più ci è rimasto impresso. Forse la distruzione fisica che subivano i prigionieri, o forse, più di tutto, il loro annullamento dal punto di vista umano.
Nel lager sei solo un numero, nulla più ti appartiene: sei denudato davanti a tutti, privato dei tuoi vestiti e delle tue cose più familiari. Sopporti orari di lavoro alienanti, torture impensabili e vivi in condizioni disumane. Come una bestia punti a vivere un giorno di più, un altro ancora. Non sei più un uomo.
L’illusione o addirittura il briciolo di speranza che ancora conservavano i nuovi arrivati crollava subito; non solo venivano denudati e veniva tolta loro ogni cosa, ma il cibo  pessimo che loro istintivamente rifiutavano era invece mangiato con gusto e appetito dagli internati da più tempo, e ciò provocava un vero crollo psicologico.
Gli esperimenti fatti sugli ebrei erano molteplici e tutti studiati nei minimi particolari da scienziati e medici nazisti: gli internati erano considerati inferiori alle bestie, semplici cavie da laboratorio.
Ciò che è davvero difficile immaginare è la precisione con la quale fu organizzata la soluzione finale. Ogni dettaglio delle “macchine della morte” era studiato da esperti per permettere di uccidere più prigionieri possibile: ogni giorno, come se si trattasse di ordinaria amministrazione.
Il fatto che i nazisti riuscissero a ottenere anche un profitto economico dallo sterminio di massa è una delle cose più spregevoli. Il commercio delle ceneri mortuarie che, raccolte nei forni crematori e mischiate a polvere, erano vendute a parenti e amici delle vittime, come fossero autentiche, rivela limiti inimmaginabili della follia umana.
Abbiamo capito molte cose da questa visita, riflettuto sul passato e su quello che siamo oggi.
L'odio per il “diverso”, sia esso ebreo, zingaro o omosessuale, alimentato da Hitler nelle masse del suo tempo, sopravvive ancora oggi. Proviamo orrore, terrore e inquietudine quando ancora, nel 2011, sentiamo discorsi razzisti.
Da oggi porteremo, indelebile in noi, il ricordo di quei luoghi in cui ci sembra, dopo questa visita, di aver vissuto e sofferto insieme ai deportati.
La storia deve essere maestra di vita, dobbiamo lottare affinché questa tragedia non si compia nuovamente.

ELISA CAMASSI - Congo sfruttato


Bellezza, colonizzazione e decolonizzazione 


Quest’estate andrò a fare volontariato in Congo.
Mi chiedo com’è là, come si vive, cosa succede in queste terre a me totalmente sconosciute. Quando si pensa all’Africa, si pensa alla savana, ai safari e agli enormi animali che attraversano i deserti o che cacciano nelle steppe. Ma nessuno pensa alla storia che l’ha attraversata e che ci ha preceduti.
È sempre stata una terra fertile, quella del Congo, e piena di giacimenti minerari che hanno destato l’interesse delle multinazionali e creato notevoli problemi politici, fino a conflitti armati protrattisi anche dopo la decolonizzazione, ma è anche uno tra i paesi più poveri e sottosviluppati del mondo.
La ricchezza di questa terra, e di tutta l’Africa, ne è stata la sua stessa rovina. Continua infatti ancora oggi lo sfruttamento di tutte le risorse naturali di cui il Congo è ricchissimo (cobalto, rame, uranio, oro, diamanti, cassiterite e coltan, elementi essenziali per la produzione delle nuove tecnologie), iniziato a metà ‘800, con la prima colonizzazione. Da sempre l’Occidente utilizza questi metalli preziosi ottenuti a basso costo, per ricavare profitti altissimi sfruttando lavoratori e territorio fino allo stremo.
Ad avviare la colonizzazione dell’intero territorio africano fu la Francia, occupando Algeria e Tunisia rispettivamente nel 1830 e nel 1881, seguita dalle altre grandi potenze coloniali europee (Francia, Inghilterra, Germania, Portogallo, Italia, Belgio e, in misura minore, la Spagna), che si spartirono l’immenso territorio a loro piacimento.
Spinti da una presunta “missione civilizzatrice” delle popolazioni “arretrate” africane, i colonizzatori iniziarono lo sfruttamento delle risorse naturali, cambiando in tutto il continente il sistema agricolo ed economico, al fine di favorire la produzione dei cosiddetti cash crops, ossia i prodotti agricoli commerciabili sui mercati internazionali, discriminando politicamente ed economicamente la popolazione locale.
Il Congo fu di conseguenza esplorato per la prima volta dai colonizzatori, durante la seconda metà dell’800, su incarico del re belga Leopoldo II. Il territorio venne da lui dichiarato “stato libero” sotto suo personale controllo: egli sfruttò le risorse minerarie e la produzione della gomma del paese, finché questo non divenne una colonia del Belgio, nel 1908. Lo sfruttamento provocato dalla feroce colonizzazione determinò un vero e proprio calo demografico, essendosi la popolazione dimezzata in soli trent’anni tra il 1890 e il 1920, ma anche un forte impoverimento del terreno, ormai arrivato al culmine dello sfruttamento.
Con la decolonizzazione, il processo di dissoluzione dell’assetto coloniale che alcune potenze europee avevano imposto alla quasi totalità dell’Africa, la situazione non cambiò di molto per i singoli stati ex coloniali, ma comunque li portò alla conquista dell’indipendenza politica e successivamente l’emancipazione dalle ingerenze economiche degli stati colonizzatori.


I movimenti di liberazione nazionale dei popoli sottomessi dai colonizzatori furono promossi, dalla seconda metà del XX secolo, da alcuni paesi del nord del continente, fino ad includere, in poco tempo, tutto il territorio. Nel 1951 Inglesi e Francesi si ritirarono dalla Libia, pochi anni dopo anche Marocco, Tunisia e Sudan ottennero l’indipendenza, così di seguito la Costa d’Oro dichiarò la propria sovranità con il nome di Ghana nel 1957, la Guinea nel '58 e con essa tutto il resto dell’Africa, ad esclusione delle le colonie portoghesi.
In seguito alla decolonizzazione, gli stati africani andarono incontro a un destino comune, poiché le potenze coloniali avevano creato ovunque un sistema economico che mirava a fare dell’Africa una fonte di materie prime utili all’industria e al sistema produttivo dell’Occidente. Una forte instabilità politica, segnata da dittature militari e colpi di stato nel contesto di frequenti fenomeni di corruzione, conflitti interni, e un grave decollo economico, caratterizzarono quasi ogni stato africano.
Di conseguenza, anche la decolonizzazione del Congo avvenne allo stesso modo: all’autogoverno del 1957 seguì, nel 1960, l’indipendenza dal Belgio. Il paese entrò però ben presto in crisi a causa della mancanza di una classe dirigente sufficientemente ampia e preparata, fino al 1965, quando i militari guidati da Mobutu imposero un regime personale autoritario. Oggi Joseph Kabila è il presidente della repubblica democratica del Congo, ha vinto le elezioni del 28 novembre scorso, ma queste sono state contestate per brogli contro Etienne Tshisekedi.
A fine estate partirò dunque per la mia avventura, consapevole della storia della terra su cui pesterò i piedi.