venerdì 6 aprile 2012

Giulia Bernardinello - Viaggio in Bosnia: la distruzione e la speranza


Per le classi quinte più fortunate, giunte quasi alla fine del loro lungo percorso di studio, è concessa una settimana d’istruzione rilassante: la gita scolastica. Questo viaggio deve essere un insieme di piacere e conoscenza, che unendosi in simbiosi, donano allo studente la ricetta perfetta del divertimento.
La Bosnia Erzegovina, la Slovenia e la Croazia hanno messo a nudo la loro storia, le loro sofferenze, le loro vergogne, le loro differenze e i loro molteplici pregi,  per far conoscere il cuore del loro passato a una straniera come me.
Venerdì 23 Marzo, piena di spirito e aspettative, è iniziato questo viaggio. Ho messo piede in più città in quei giorni, come Tuzla, Sarajevo, Mostar, Dubrovnick, ma quella che mi ha colpito di più è stata Srebrenica.

1993-1995. Quando sono nata e le bambole erano il mio passatempo, serbi e bosniaci hanno intrapreso una delle guerre più sanguinose al mondo, dove i bambini sono stati costretti a crescere tra le armi. Questa data è da imprimere saldamente dei nostri ricordi ed è mia intenzione sottolineare come siano pochissimi gli anni passati dalla fine di questo massacro. E’ per me inconcepibile come a distanza di qualche miglia di mare, esseri umani tutti uguali fra loro siano costretti a vivere vite così differenti.
L’11 luglio 1995 i serbi hanno assediato Srebrenica. Donne e bambini sono stati aiutati dai militari olandesi e rinchiusi nella cosiddetta ‘zona protetta’ dell’ONU, una fabbrica poco distante dalla città. Gli uomini, invece, hanno iniziato a scappare, cercando di raggiungere Tuzla. Durante quest’impresa la maggioranza di essi è morta e in pochissimi sono riusciti a tornare indietro dalle proprie famiglie. Solo nel 2010 gli esperti stimano 8372 morti, di cui solamente 6000 identificati.
Ho visitato il sacrario di Srebrenica: tutti quei nomi, tutte quelle vite e quei futuri mancati tolgono il fiato. Se hai la “fortuna” di leggerli, non puoi  concepire il perché della loro morte, ma puoi farti una vaga idea di ciò che è successo in quel territorio. Ascoltando le testimonianze dei superstiti, lo stomaco ti si chiude, i pensieri si annebbiano e la rabbia aumenta.
Avremo potuto fare qualcosa?
Potevamo aiutare e non lo abbiamo fatto?
Mogli che non sanno il destino dei loro mariti. Sono ancora vivi e le stanno cercando, o purtroppo uno dei tanti cadaveri irriconoscibili  nelle troppe fosse comuni è proprio il loro?
Figli smarriti che ricordano poco di ciò che è successo e non capiscono perché a loro è toccata un'infanzia diversa dagli altri, loro che non hanno avuto affatto un’infanzia. 
Sono entrata in quella fabbrica, enorme, scura, vuota, spoglia e maleodorante. Ho immaginato a scatti la moltitudine di persone che, tutte strette fra loro e disperate, si domandavano se mai la loro sofferenza avrebbe avuto una fine. I muri sono incisi e alcune foto sono appese. Brividi.
Mi è rimasta nel cuore e nella mente la frase del nostro autista croato: “Quando vieni a Sarajevo non chiedere come la gente muore, ma solo quando muore”.
Gli aiuti alla popolazione in tempo di guerra sono stati miseri e inutili. Gli Stati Uniti sganciarono due bombe ricche di uranio sulla città e sparirono. Ora quell’uranio impoverito avvelena le persone e i tumori sono il 90% delle cause di morte qui.
Dietro ad un paese ancora in ginocchio c’è però la voglia di risollevarsi.
I sorrisi delle persone e i loro occhi lucidi fanno scorgere la voglia di rinascere dalle macerie, di riparare le case ancora deturpate, su cui gli spari sono ancora evidentissimi.
Per compiere questo grande passo esistono associazioni come quella di Sarajevo, che opera su tutto il territorio con squadre speciali, per togliere i bambini dalla strada e dar loro il futuro che non avrebbero potuto avere senza un aiuto. Ho visitato il centro e conosciuto i ragazzi, purtroppo molto superficialmente. Camminando in quelle stanze saltano agli occhi colori, odori e scritture diverse; religioni che si uniscono, che si RISPETTANO, che si tollerano pacificamente. Questa caratteristica è nota non solo in questi centri, ma anche nel cuore della città.
Ci sono quattro chiese: una ortodossa, una mussulmana, una ebrea e una cattolica. Tutte coesistono senza problemi e senza screzi.
Sono giunta alla conclusione che questi luoghi, pur essendo deturpati esteriormente, abbiano un’anima molto più matura e pura della nostra. Pur essendo distrutta dalla guerra, qui la gente non si è fatta portare via la speranze, le usanze e le credenze. Sono molto colpita dalla loro forza di vivere.
Sono entusiasta da ciò che ho visto e sicuramente non lo scorderò mai, impossibile farlo.

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