Per le classi
quinte più fortunate, giunte quasi alla fine del loro lungo percorso di studio,
è concessa una settimana d’istruzione rilassante: la gita scolastica. Questo
viaggio deve essere un insieme di piacere e conoscenza, che unendosi in
simbiosi, donano allo studente la ricetta perfetta del divertimento.
La Bosnia
Erzegovina, la Slovenia e la Croazia hanno messo a nudo la loro storia, le loro
sofferenze, le loro vergogne, le loro differenze e i loro molteplici
pregi, per far conoscere il cuore del loro
passato a una straniera come me.
Venerdì 23 Marzo, piena di spirito e
aspettative, è iniziato questo viaggio. Ho messo piede in più città in quei
giorni, come Tuzla, Sarajevo, Mostar, Dubrovnick, ma quella che mi ha colpito
di più è stata Srebrenica.
1993-1995. Quando
sono nata e le bambole erano il mio passatempo, serbi e bosniaci hanno
intrapreso una delle guerre più sanguinose al mondo, dove i bambini sono stati
costretti a crescere tra le armi. Questa data è da imprimere saldamente dei
nostri ricordi ed è mia intenzione sottolineare come siano pochissimi gli anni passati dalla
fine di questo massacro. E’ per me inconcepibile come a distanza di qualche
miglia di mare, esseri umani tutti uguali fra loro siano costretti a vivere vite così
differenti.
L’11 luglio 1995 i
serbi hanno assediato Srebrenica. Donne e bambini sono stati aiutati dai
militari olandesi e rinchiusi nella cosiddetta ‘zona protetta’ dell’ONU, una
fabbrica poco distante dalla città. Gli uomini, invece, hanno iniziato a
scappare, cercando di raggiungere Tuzla. Durante quest’impresa la maggioranza
di essi è morta e in pochissimi sono riusciti a tornare indietro dalle proprie
famiglie. Solo nel 2010 gli esperti stimano 8372 morti, di cui solamente 6000
identificati.
Ho visitato il
sacrario di Srebrenica: tutti quei nomi, tutte quelle vite e quei futuri
mancati tolgono il fiato. Se hai la “fortuna” di leggerli, non puoi concepire il perché della loro morte, ma puoi farti una
vaga idea di ciò che è successo in quel territorio. Ascoltando le testimonianze dei superstiti, lo stomaco ti si chiude, i pensieri si annebbiano
e la rabbia aumenta.
Avremo potuto fare
qualcosa?
Potevamo aiutare e
non lo abbiamo fatto?
Mogli che non
sanno il destino dei loro mariti. Sono ancora vivi e le stanno cercando, o purtroppo uno dei tanti cadaveri irriconoscibili nelle troppe fosse comuni è
proprio il loro?
Figli smarriti che ricordano poco di ciò che è successo e non
capiscono perché a loro è toccata un'infanzia diversa dagli altri, loro che non
hanno avuto affatto un’infanzia.
Sono entrata in quella fabbrica, enorme, scura, vuota,
spoglia e maleodorante. Ho immaginato a scatti la moltitudine di persone che, tutte strette fra loro e disperate, si domandavano se mai la loro sofferenza
avrebbe avuto una fine. I muri sono incisi e alcune foto sono appese. Brividi.
Mi è rimasta nel
cuore e nella mente la frase del nostro autista croato: “Quando vieni a
Sarajevo non chiedere come la gente muore, ma solo quando muore”.
Gli aiuti alla
popolazione in tempo di guerra sono stati miseri e inutili. Gli Stati Uniti
sganciarono due bombe ricche di uranio sulla città e sparirono. Ora
quell’uranio impoverito avvelena le persone e i tumori sono il 90% delle cause
di morte qui.
Dietro ad un paese
ancora in ginocchio c’è però la voglia di risollevarsi.
I sorrisi delle
persone e i loro occhi lucidi fanno scorgere la voglia di rinascere dalle
macerie, di riparare le case ancora deturpate, su cui gli spari sono ancora evidentissimi.
Per compiere
questo grande passo esistono associazioni come quella di Sarajevo, che opera su
tutto il territorio con squadre speciali, per togliere i bambini dalla strada e
dar loro il futuro che non avrebbero potuto avere senza un aiuto. Ho visitato il
centro e conosciuto i ragazzi, purtroppo molto superficialmente. Camminando in
quelle stanze saltano agli occhi colori, odori e scritture diverse; religioni
che si uniscono, che si RISPETTANO, che si tollerano pacificamente. Questa
caratteristica è nota non solo in questi centri, ma anche nel cuore della
città.
Ci sono quattro
chiese: una ortodossa, una mussulmana, una ebrea e una cattolica. Tutte
coesistono senza problemi e senza screzi.
Sono giunta alla
conclusione che questi luoghi, pur essendo deturpati esteriormente, abbiano
un’anima molto più matura e pura della nostra. Pur essendo distrutta dalla
guerra, qui la gente non si è fatta portare via la speranze, le usanze e le credenze.
Sono molto colpita dalla loro forza di vivere.
Sono entusiasta da
ciò che ho visto e sicuramente non lo scorderò mai, impossibile farlo.
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