Il 17 marzo 2012 si sono concluse
le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia.
Per l’occasione il Quirinale ha
chiamato l’attore e comico Roberto Benigni per leggere e commentare alcuni
documenti riguardanti la storia italiana dal 1861 al 1945. In primo luogo egli
ha letto il testo pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 1861 della
proclamazione dell’unità, che costituisce l’atto di nascita del Regno d’Italia.
In questo contesto Benigni ha
parlato dei tre padri che hanno auspicato l’unificazione: Cavour, Mazzini e
Garibaldi. Il primo è - a parere di Benigni - senza dubbio il più grande
statista del XIX secolo. Cavour infatti non si fidava delle dittature e aveva
un concetto del Parlamento giusto e democratico. Giuseppe Mazzini, invece, elaborò
originalmente il concetto di patria: secondo lui, essa non s’identifica con il
territorio, ma con l’idea che ne hanno i cittadini, con il senso di unione che
accomuna tutti quelli che vi abitano. Egli sosteneva che una patria non poteva
essere tale se non erano garantiti il diritto di voto, l’educazione e il
lavoro, insistendo in particolare su quest’ultimo punto, poiché gli uomini che
non hanno lavoro non percepiscono il territorio in cui vivono come patria. Si
tratta senz’altro di un’idea moderna e all’avanguardia che è valida tuttora.
Per quanto il pensiero di Giuseppe Garibaldi, forse il più innovativo tra
tutti, egli immaginava una confederazione tra le nazioni europee, un grande
unico Stato che, grazie alla sua potenza, nessuno avrebbe osato attaccare.
Questa “unione” avrebbe soprattutto favorito la fine delle ostilità tra nazioni
europee, in particolare tra Francia e Inghilterra, e anche l’entrata della
Russia, socialmente ed economicamente arretrata, all’interno dell’Europa. Il
fatto più straordinario riguardo Garibaldi è la sua lungimiranza: egli
nell’Ottocento aveva già preconizzato l’Unione Europea, nella quale sarebbero
confluiti tutti i paesi d’Europa, rispettando i valori di pace, associazione,
sicurezza, fratellanza ed uguaglianza[1].
Successivamente l'attore è
passato alle memorie relative alla Grande Guerra. A questo proposito, ha letto
una poesia intitolata Voce di vedetta
morta, scritta da Clemente Rebora, poeta che combatté sul Carso rimanendo
gravemente ferito:
C'è un corpo in
poltiglia
con crespe di faccia ,
affiorante
sul lezzo dell'aria
sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
Affar di chi può e del
fango.
Però se ritorni
tu uomo, di guerra
a chi ignora non dire;
non dire la cosa, ove
l'uomo
e la vita s'intendono
ancora.
Ma afferra la donna
una notte dopo un gorgo
di baci,
se tornare potrai;
soffiale che nulla nel
mondo
redimerà cio ch'è perso
di noi, i putrefatti di
qui; stringile il cuore a strozzarla:
e se t'ama, lo capirai
nella vita
più tardi, o giammai.
La poesia esprime umanità
attraverso la pietà e la compassione per la sentinella che si trova in mezzo al
fango colpita da un proiettile. In questo contesto Rebora rimane attaccato alla
vita pensando al futuro, alla donna che ama e che rivedrà una volta finita la
guerra.
Nel 1921, proseguendo nel viaggio
storico proposto da Benigni, il Parlamento fece erigere un monumento al
Vittoriano in onore del milite ignoto, un soldato non identificabile caduto in
guerra. Questo fatto è importante perché in Italia mai prima di allora era
stato realizzato un monumento per qualcuno che non godesse di un certo rilievo
sociale. Il fatto è ancora più eclatante se si pensa che esso è stato eretto al
Vittoriano, il monumento con il quale si celebrava Vittorio Emanuele II, primo
re d’Italia.
Dalla Grande Guerra, Benigni
salta direttamente agli anni ’30, quando il fascismo era ormai diventato
l’ideologia dominante. Infatti, un regio decreto del 1931 obbligava tutti i
professori universitari a giurare fedeltà al regime fascista. Su 1250 docenti,
solo 14 rifiutarono, e l'attore ritiene giusto ricordarne ad alta voce i nomi. Tra
di loro spiccano due personaggi importanti: Giuseppe Antonio Borgese
(scrittore) e Bartolo Nigrisoli (chirurgo).
Tuttavia c’erano alcuni
intellettuali che già nel 1925 avevano capito che il fascismo avrebbe preso il
sopravvento e che quindi si dimisero volontariamente dall’insegnamento. Essi
erano Gaetano Salvemini e Francesco Saverio Nitti, due dei politici più
antifascisti durante il governo di Mussolini.
A questo punto Benigni arriva
alle legge razziali, la cui tragicità, secondo il comico, sfiora il ridicolo e di
cui quindi non si può che parlare in modo ridicolo. A questo proposito cita una
poesia di Trilussa, poeta dialettale romano, che parla di un uomo che ha gatto
con un nome ebreo e che vuole farlo diventare ariano. Così si reca da un suo
amico prefetto che, appurata l’origine dei genitori, gli firma un documento che
dichiara il gatto di razza ariana. Ovviamente si tratta di un’estremizzazione
della questione della razza, con la quale si vuole sottolineare quanto ridicolo
fosse considerare gli ebrei una “razza”, e per di più inferiore.
Infine Benigni parla della
Resistenza, e a questo proposito legge alcune lettere di ragazzi sui 18-20 anni
che vi hanno partecipato come partigiani. Essi scrivono alle rispettive
famiglie un saluto di addio poche ore prima di essere fucilati e dicono di
essere innocenti, di morire per una giusta causa e invitano a non disperarsi
per loro. C’è stato però un dettaglio, che essi raccontavano, che mi ha
veramente ripugnato ed è stato l’atteggiamento dei giudici. Essi ridevano e si
prendevano gioco di loro mentre leggevano la sentenza di morte. È invece da
ammirare il gesto eroico compiuto da quei giovani ragazzi, che con il loro
coraggio hanno combattuto strenuamente, liberando l’Italia dagli invasori.
Grazie al loro sacrificio l’Italia è diventata una repubblica democratica, con
una Costituzione che sancisce i valori fondamentali della nostra Patria.
[1]
Va ricordato tuttavia che l’idea di Europa era comparsa per la prima volta nel
XV secolo, in un’opera di Enea Silvio Piccolomini (Papa Pio II), intitolata De Europa. In quel periodo, infatti, si
auspicava l’unione di tutte le potenze europee per difendersi dall’attacco dei
turchi-ottomani.
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